Recensioni
"Che frastuono nei quadri di Michele Ardito, una fanfara di
colori, il premiato corpo bandistico dei tubetti e dei pennelli. Immagino il
pittore che strizza i contenitori come si fa col dentifricio nuovo, semina
vermiciattoli policromi e li spalma, li accarezza, li cosparge nel perimetro
delle melanzane, delle cipolle, dei peperoni, oppure sui volti appassiti delle
donne, su quelli combattivi dei contadini o dei briganti. Nomen est omen, il
nome è l'oggetto che rappresenta dicono i nominalisti. Nel senso che Ardito, un
uomo gioviale e allegro ma anche spontaneo e naif e che a vedersi pare scappato
da una tela di Xavier Bueno, è Ardito di nome e di fatto. Uno che sta bene nel
proprio studio a dipingere, ma altrettanto a suo agio si sarebbe trovato
centocinquant'anni orsono su un cavallo, col trombone o con un archibugio ad
armacollo.
E archibugi cavalli coltelli cappellacci erano fino a poche tele fa i suoi
fantasmi, quando la memoria storica e mitologica della Basilicata, dove Michele
è vissuto a lungo e dove non si fatica molto a scoprire che ha lasciato parte di
sè, quando quella memoria veniva ad infiammare la sua mano. E' che della propria
infanzia si resta prigionieri tutta la vita.
I racconti del vicolo sono venuti a riempire la fantasia di quest'uomo, sono
tornati a più riprese le leggende di Crocco, di Caruso, di Coppa e di Ninco
Nanco, in stuoli di cavalli e cavalieri, in storie di orchi e di megere, in
storie di occupazioni di terre e lotte per un riscatto comune, o in vicende più
quotidiane e meno epiche, la difficile quotidianità della miseria. Molta parte
della vita di Rocco Scotellaro, attraverso la mano greca e arcaica di Carlo Levi
si è riproposta nel crogiuolo illustrativo di Ardito, che ha rappresentato a più
riprese gli anni dell'indigenza e tuttavia della felicità giovanile. Si viveva
di niente e si cercava tutto, sembrano raccontarci donne dallo sguardo
malinconico e le gramaglie del lutto, inabili e invasati che hanno nei tratti e
negli occhi l'allucinazione di Ligabue, ma forse quel niente bastava.
Ci sono pittori urbani e pittori di campagna, uomini che rincorrono tutta la
vita in un habitat ideale. Ardito vive in pittura un luogo che non è mai
l'ambiente borghese nel quale si trova a soggiornare.
E' un pittore pre-urbano, innamorato delle colline e delle pianure, innamorato
dei calanchi, delle montagne. Questo amore è espresso attraverso una carica
violenta, fatta da toni accesi, di colori infuocati, vistosamente folgoranti,
sciabolate, fiamme, fondali torbidi come inchiostro. Ardito è un pittore
passionale, il suo è un eroismo cromatico, feroce come la sicilitudine di
Guttuso, come il furore infuocato di Sassu. Non c'è spazio per le penombre in
questi quadri c'è un manicheismo sanguigno e sanguinario, una ferma volontà di
dire pane al pane e di non ingannare.
Lentamente la Basilicata ha lasciato spazio ad altre realtà geografiche, ad
altri panorami. Sono venute le pianure pugliesi, i trulli, le campagne assolate,
le controre, le lagune venete. Eppure non c'è un territorio altro, piuttosto una
sorta di dilatazione dei confini lucani. La fine del mondo arcaico, la lenta
morte della natura e dei panorami preindustriali ha velato ogni cosa. Ora, i
luoghi si sono fatti luoghi di dentro, luoghi mentali. La bella campagna dove
l'artista ha potuto vivere i giochi adolescenziali, i vigneti dai pampini nuovi,
l'odore dell'erba tagliata, le cicale nel sole e le lucciole nel buio,
appartengono a una storia svanita e tutta da raccontare. Tra la mente di Michele
e le cose si è steso un velo che induce a un silenzio profondo, ma che non ha
stemperato i colori, la violenza dei toni.
Così, la passionalità di Ardito si è fatta angosciosa testimonianza della
perduta bellezza, della fine di un'età e di un mondo. Di fronte ai paesaggi
ultimi mi ricordo di un altro lucano, un poeta di Montemurro, Leonardo
Sinisgalli. Raffigurando la morte della sorella, trapassata in età tenerissima,
l'autore di Mosche in bottiglia, Il passero e il Lebbroso e Fiori pari e fiori
dispari immagina che la ragazza proceda muta sulla riva assolata di un fiume, i
polverosi fiumi lucani, nella luce dell'Acheronte, ma una luce così violenta da
abbagliare la mente e la vista." - Raffaele Nigro