Francesco Mestria, scultore, nasce a Ferrandina - in provincia di Matera - nel 1953, dove attualmente vive e lavora.
Ha mostrato sin da piccolo la sua passione per l’attività artistica, che ha sempre coltivato, dimostrando di ben saper manipolare materiali di ogni tipo, facendo emergere da essi sinuose forme e figure.
All’età di 47 anni si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Bari, frequentandola in maniera assidua da studente-lavoratore, conseguendo - nel 202 - il diploma nel corso di scultura.
Gli studi accademici, oltre ad averlo arricchito delle conoscenze necessarie, gli hanno permesso di misurarsi in maniera critica con le tendenze dell’arte contemporanea, facendo emergere dalle sue produzioni messaggi apparentemente arcaici.
L’esistenza umana è il tema che l’artista predilige:
nelle sue opere, sempre velate da una leggera
tristezza, l’isolamento della figura è solo
apparente poiché il suo volume si inserisce nel
contesto spaziale circostante, la sua solitudine è
quella della incomunicabilità, la quotidianità del
gesto si sublima nella teatralità della costruzione,
che acquista un valore scenografico;
l’individualismo quindi altro non è che la volontà
di ricercare una dimensione sociale dell’uomo.
Le sue figure femminili, pur perfettamente
delineate, risultano essere quasi abbozzate nelle
forme; grande risalto hanno le braccia, sempre
protese verso l’altrui generazione, verso il
prossimo; quasi sempre levigate dal tempo si
adagiano su vetuste sedute o si detergono in antichi
lavabi, meticolosità espressiva che segna la
contemporaneità tracciando un binomio
imprescindibile tra presente e passato.
Le sue opere acquisiscono lo spazio, lo abitano al
pari di un fondale in uno spettacolo drammatico.
Come atti a sé stanti di un unico ciclo
rappresentativo, ogni realizzazione si rinserra
nella propria storia, ed ogni storia è svolgimento e
nesso circolare con le altre storie, atomi a
rincorrersi ed a comporre la vita. Fantocci senza
sembianze e senza nobiltà, sagome ordinarie di
cartapesta e plastiche, spesso si vestono di bianco
per raccontare ogni colore, per essere ogni volto ed
ogni gesto ed ogni destino che l’umanità ha
conosciuto nella gran commedia del mondo.
Sempre attento ai problemi della società
contemporanea, in questi ultimi anni della sua
produzione, ha voluto contribuire con alcune
istallazioni/provocazioni a mantenere vivo il
dibattito sui mali della nostra esistenza: la
violenza sull’infanzia, lo sfruttamento dell’essere
umano, in particolare la mercificazione della donna,
l’incapacità dei più di cogliere la ricchezza nei
diversi. La sua “valigia con l’artista” sempre in
giro per il mondo, durante le brevi soste, continua
a sollecitare curiosità e interesse.
Partecipa ad importanti rassegne d’arte tenendo
anche numerose mostre personali . Tra le sue
presenze più significative si citano, dato il suo
vasto curriculum espositivo, quelle alla Biennale
d’arte siciliana e di Malta, al Premio “Trevi flash
art Museum”, “Il Premio arte”, il “Contemporary art
special award” a Milano, il Premio “Open art” a
Roma, il quarto concorso “Paretia ad Arte” e negli
anni 2008-2009 “Ventiperventi”, liberaMenteVerde” e
liberaMenteBianco” a Napoli, “RaccontArti” a Roma,
“Espressioni cromatiche”a Napoli. Si segnala la sua
partecipazione, come unico scultore , a
Enkomion.
Quella che Francesco Mestria mette in scena è
una moderna tragedia in tre atti imperniata sulla dolorosa coscienza che
l'uomo prende del suo posto nel mondo. L'artista lucano dalle profonde
radici magno-greche trasforma la cartapesta, umile materia della tradizione
artigianale locale, in carne dolorante e ci invita a riflettere sulla crisi
dei rapporti umani e sociali nella società contemporanea. “Suvvia, dormi,
dormi, bimbo: dorma il mare; l'immensa sventura dorma.” Simonie. La prima
volta che ho visto delle sculture in cartapesta è stato a Matera, durante la
festa della Madonna della Bruna: un bizzarro carro colorato affollato di
angeli, madonne e cristi dalle espressioni stupefatte, i gesti enfatici, una
favolosa macchina scenica nel teatro tragico dei Sassi. Ritrovo l'umile e
antichissima lavorazione di cenci macerati nelle sculture di Francesco
Mestria, artista della provincia materana che eredita dalla tradizione
artigianale la capacità di sfruttare a pieno le risorse della materia
mettendola istintivamente a contatto con la luce e lo spazio. Ma nelle tre
sculture di Mestria, che sono il nucleo centrale della mostra, della
spettacolare messinscena barocca è rimasto ben poco, spogliate del colore,
delle vesti e dei simboli cristiani sembrano uscite dalla bottega ancora
sbozzate. Resta la loro attitudine teatrale ma così ridotte all'essenziale
ricordano piuttosto le figure arcaiche e archetipiche delle misteriose
civiltà proto-elleniche che hanno abitato queste terre, antichi eroi ancora
senza nome e senza volto, kouroi contemporanei che incarnano l’idea stessa
d’umanità più che rappresentarla. Nella prima statua, Life, una madre
amorevolmente piegata sul figlio, le forme indistinte, le linee curve e
armoniose che raccordano le due figure, come nelle creature organiche di
Henry Moore rimandano al passato favoloso del mito, prima della colpa, del
formarsi della coscienza, quando la vita era ancora un fluire continuo e
naturale ma ricordano anche la ‘purezza’ contadina dell'era pre-industriale
rimpianta da Pasolini. All'improvviso le creature innocenti si trasformano
in muse inquietanti, terribili manichini di morte, il canto esiodeo vira
verso la tragedia disperata di Euripide. La brusca accelerazione dell’azione
‘srotola’ e spinge in avanti l'evento drammatico, l'omicidio del bambino
(Murder), ma questa moderna Medea dai tratti appena accennati, i gesti
sintetici, più che una risoluta e feroce assassina sembra un fantoccio che
compie un gesto automatico, vittima anch'essa di un destino imperscrutabile,
agita da forze superiori, eroina abbandonata dagli dei, sola di fronte
all’assurdo dell’esistenza. Il crescendo drammatico raggiunge il suo climax
nell'ultimo atto, Suicide, in cui l’anti-eroina precipita nel vuoto,
sopraffatta dal dolore della vita e incapace di dare una risposta alla crisi
dei rapporti umani e sociali e al totale sovvertimento delle leggi naturali
del'mondo post-industriale. Inconsistente anti-scultura dal leggerissimo
materiale, sagoma ormai esangue dalla bocca nera, spalancata in un grido
d’angoscia, ‘relitto’ della scultura classica, è l’immagine della condizione
dell’uomo moderno, l’Essere in corsa verso il Nulla. Muto spettatore della
tragedia uno strano totem:assemblando oggetti d’uso comune alla maniera dei
dadaisti, l'artista crea un oggetto nuovo svincolato da qualsiasi funzione,
un emblema. Il bambolotto ‘coperto’ da una busta di plastica trasparente (|
bambini nascono con gli occhi aperti?) incarna la vita come ‘soffocata’ da
un involucro, un carico di sofferenza e di colpa ancestrale, un opprimente
condizionamento che crea una distanza invisibile guanto reale tra noi e il
mondo. Questo suggestivo ready-made ha la stessa funzione del coro nella
tragedia, amplia la prospettiva, dà al dramma visto sulla scena la sua
dimensione metafisica, associa all'azione la sua sostanza morale. Lo spirito
mitico della Magna Grecia, col suo carico di alti ideali e antichissimi
traumi, aleggia in tutta la mostra. Le lamiere-corazze trafitte e martoriate
(Warrior, Warrior ) sono, come gli elmi scuri di Paladino, i segni di un
passato di sangue e violenza più che le vestigia di un'antica gloria mentre
i volti arcaici, dai segni eleganti e semplificati imprigionati nella
pietra, di Aspasia, femminista ante-litteram nella sessista Grecia classica,
e di Danae, dolce figura di mater dolorosa, indicano alla sensibilità
moderna in queste belle figure di donne piuttosto che nei principi guerrieri
l'eredità migliore di un luminoso passato.. Ogni uomo ha una parte da recitare con cui andare
in scena nel palcoscenico della vita; il sipario si apre ed ecco una piccola
bambola ricoperta dalla testa ai piedi, impedita nel guardare, il peso umano le
cade addosso dalla nascita. Come il regolare ciclo di vita, la bimba cresce con
tutti i difetti che ognuno possiede, il corpo si evolve e inevitabilmente
diventa madre. Come in una tragedia greca, la più nota al pubblico esperto, la
madre si ritrova a lavare dal sangue il volto di un piccolo, la vita si è
evoluta in un irrimediabile dramma che la porta a lanciarsi nel baratro urlando
alla vita. L'inizio e la fine del ciclo vitale tratteggiato nella sfera teatrale
sono il tema dell'intera scena. La donna di Mestria cresce con i difetti
visibili nella forma, delineata perfettamente ma quasi incurata abbozzata a
donna nelle forme, sempre tesa, con la muscolatura scolpita, priva di occhi ma
con un'anima. E' racchiusa nelle braccia l’anima della donna angelica di Mestria,
in quelle braccia sempre protese verso l’altrui generazione, al prossimo.
Plastico quanto basta, reale al punto di sorprendere, l’operato di Mestria
sorprende lo spettatore per la grandiosità dell’opera plasmata spingendolo a
riflettere sul latente significato della resa artistica, sulle responsabilità
che la vita dona ad ognuno, sui sacrifici per giungere lontano, in un dove
diverso da quella della protagonista, intriso di entusiasmo per la vittoria.
Francesco Mestria staglia i suoi nivei esseri nella scena del presente
ricercando nella materia reconditi sensi. Quasi sospesi, levigati dal tempo, le
braccia dei suoi uomini tendono al presente e al passato, si adagiano su vetuste
sedute o si detergono in antichi lavabo, meticolosità espressiva che segna la
contemporaneità tracciando un binomio imprescindibile in cui il presente e il
passato si intricano con la grazia che solo un grande sa adoperare.