Mostra a cura di Francesca Fabiani dal 24 gennaio al 10 marzo 2024 presso il Museo Fortuny di Venezia, che presenta dodici light box realizzate dall'artista.
Joan Fontcuberta (Barcellona, 1955) è tra le figure più autorevoli nel
panorama della fotografia contemporanea. Artista, docente, saggista,
curatore e scrittore, ha dato avvio alla sua multidisciplinare carriera
negli anni ’70 affiancando alla ricerca artistica i diversi impegni in
ambito didattico, teorico e curatoriale.
La mostra “Joan Fontcuberta. Cultura di polvere” ospitata al Museo
Fortuny è resa possibile grazie alla collaborazione tra la Fondazione
Musei Civici di Venezia e l’ICCD - Istituto Centrale per il Catalogo e
la Documentazione di Roma, avviata nel 2021 attraverso la formula “ICCD
OFF SITE” per la promozione di progetti di fotografia contemporanea.
Comunicato stampa
Joan Fontcuberta. Cultura di polvere inaugura
la stagione espositiva al Museo Fortuny di
Venezia, ospitando dal 24 gennaio al 10 marzo
2024 le dodici light box realizzate da Joan
Fontcuberta: esito del dialogo dell'artista catalano
con le straordinarie collezioni storiche dell’ICCD
di Roma, Istituto nato a fine Ottocento come
Gabinetto Fotografico per documentare il patrimonio
culturale con fini di tutela e catalogazione. Una
mostra che, riproposta a Venezia, a Palazzo Fortuny,
rievoca non solo la comune nazionalità tra l’artista
e il “padrone di casa” ma, soprattutto, il profondo
legame di questo luogo con la fotografia, dalle
sperimentazioni di Mariano Fortuny y Madrazo
al suo ricchissimo archivio qui custodito, poi
centro d’avanguardia della fotografia negli anni
Settanta e Ottanta.
Tra le manifestazioni più importanti legate al Museo
Fortuny non si può non ricordare Venezia '79. La
Fotografia, nata dalla collaborazione tra
International Center of Photography di New York,
UNESCO e Comune di Venezia. Un evento mediatico
senza eguali, unico in Europa per genere e
dimensioni, con venticinque mostre in città,
seminari, conferenze, laboratori e workshop, che
aveva come centro dell’attività formativa Palazzo
Fortuny. A questo appuntamento epocale prende parte
anche Joan Fontcuberta che, appena ventiquattrenne,
è tra i protagonisti della mostra Fotografia europea
contemporanea ai Magazzini del Sale, curata da
Sue Davis, Jean-Claude Lemagny, Alan Porter e
Daniela Palazzoli.
L’esposizione al Museo Fortuny riporta così l’eco di
un sentimento che si aggiunge al lavoro dell’artista
come uno strato di storia e di memoria.
Joan Fontcuberta. Cultura di polvere è nato
nell’ambito del programma ICCD Artisti in residenza
a cura di Francesca Fabiani, in cui
Fontcuberta ha scelto di operare su alcune lastre
fotografiche deteriorate provenienti dal Fondo
Chigi, punto di partenza per una serie di
sperimentazioni visive e linguistiche. Rampollo di
una delle casate nobiliari più ricche e potenti
della storia, il principe Francesco Chigi Albani
della Rovere (1881-1953), naturalista e fotografo
amatoriale, nel corso delle sue sperimentazioni
approda spesso a soluzioni sorprendenti che ben
dialogano con l’intelligenza provocatoria e ironica
di Fontcuberta. Un incontro di personalità che dalla
polvere d’archivio - evocata dal titolo che rimanda
alla celebre opera di Marcel Duchamp e Man Ray
del 1920 Élevage de poussière - ha prodotto
nuove opere in una prospettiva contemporanea.
Attraverso un procedimento di tipo surrealista che
consiste nel prelievo/appropriazione di elementi già
dati - in questo caso un frammento della lastra -
Fontcuberta ha compiuto il suo atto creativo,
restituendo immagini quasi astratte eppure reali;
paesaggi poco plausibili, assolutamente non
manipolati, che appaiono nel display delle light
box. I materiali su cui ha lavorato l’artista, se da
un lato perdono memoria, dall’altro acquisiscono
nuova fisionomia attraverso i tanti segni che il
passare del tempo vi ha lasciato: graffi, lacune e,
talvolta, batteri e funghi proliferati grazie
all’ambiente chimicamente accogliente dell’emulsione
di gelatina ai sali d’argento. Nuovi paesaggi che si
sommano al soggetto originario della fotografia,
visibile in controluce.
La mostra è promossa dall’Istituto Centrale per
il Catalogo e la Documentazione di Roma in
collaborazione con Fondazione Musei Civici di
Venezia.
Il progetto è vincitore del PAC2021 - Piano per
l’Arte Contemporanea promosso dalla Direzione
Generale Creatività Contemporanea del Ministero
della Cultura. Le opere in mostra sono entrate a
far parte delle collezioni di fotografia
contemporanea dell’ICCD e sono presentate
nell’omonimo libro d’artista Joan Fontcuberta.
Cultura di polvere, edito da Danilo Montanari
Editore con testi di Francesca Fabiani, David
Campany e Joan Fontcuberta e con la grafica di
TomoTomo.
L’incontro con la stampa si terrà martedì 23 gennaio
2024 dalle 10.00 alle 14.00, mentre l’inaugurazione
avverrà dalle 15.00 alle 21.00 alla presenza di Joan
Fontcuberta, della curatrice e del direttore ICCD.
Da sempre pone al centro della propria indagine la presunta veridicità
della fotografia, l’ambiguità tra vero e falso, il tema dell’autorialità
e dell’autorevolezza, il potere affabulatorio delle immagini e la loro
proliferazione, con un approccio critico e sperimentale e con
un’attenzione particolare al tema dell’archivio. L’archivio fotografico
come massimo esempio di concentrazione e accumulazione di immagini, ma
anche come deposito di materiale, carta, negativi, lastre, album,
possibile di nuove riletture (e manipolazioni).
Numerosi i volumi pubblicati, fra cui: Il bacio di Giuda. Fotografia e
verità (1997); La (foto)camera di Pandora. La fotografi@ dopo la
fotografia (2010); La furia delle immagini. Note sulla postfotografia
(2016); Contro Barthes. Saggio visivo sull'indice (2023). Ha realizzato
mostre personali al MoMA di New York, all’Art Institute di Chicago, alla
MEP di Parigi, allo IVAM di Valencia, al London Science Museum, al
Museum Angewandte Kunst di Francoforte per citarne alcuni. Le sue opere
sono presenti nelle collezioni del Metropolitan Museum di New York, del
MoMA di San Francisco, del Museum of Fine Arts di Houston, della
National Gallery of Art di Ottawa, del Folkwang Museum di Essen, del
Centre Pompidou di Parigi, dello Stedelijk Museum di Amsterdam. In
Italia ha realizzato il progetto di arte pubblica Curiosa Meravigliosa
per il Palazzo dei Musei di Reggio Emilia (2022). Promotore e fondatore
di numerose iniziative fotografiche, nel 1979 ha curato la Conferenza
Catalana di Fotografia e nel 1982 ha co-fondato la Primavera fotografica
di Barcellona. Nel 1996 è stato direttore artistico del festival Les
Rencontres de la Photographie d’Arles e nel 2015 curatore del Mois de la
Photo a Montréal.
Molti i riconoscimenti tra cui: Medaglia David Octavious Hill dalla
Fotografisches Akademie GDL in Germania, 1988; Chevalier de l'Ordre des
Arts et des Lettres in Francia, 1994; premio UK Year of Photography and
Electronic Image Grant Award dall'Arts Council of Great Britain, 1997;
Premio Nazionale della Cultura della Generalitat de Catalunya nel 2011,
Premio Hasselblad nel 2013; Dottorato Honoris Causa alla Sorbonne
Université nel 2022.
«Posso vedere il materiale fotografico più degradato che avete in
collezione?».
Questa è stata la prima (imbarazzante) richiesta di Joan Fontcuberta
appena arrivato in ICCD come artista residente. Per un’istituzione che
dalla fine dell’Ottocento produce, acquisisce e conserva fotografie, non
è il massimo fare uscire gli scheletri dall’armadio e consegnarli nelle
mani di uno dei più seguiti e geniali affabulatori della fotografia
contemporanea. Ma tant’è. Come si dice, capita anche nelle migliori
famiglie. In questo caso nelle migliori istituzioni, che a volte si
trovano ad accogliere e gestire fotografie così rovinate da risultare
inservibili. Almeno fino a quando non arriva qualcuno che con questo
materiale imbarazzante innesca un’operazione densa di significati.
Il programma “ICCD artisti in residenza” nasce proprio con questo scopo
e vede ogni anno la partecipazione di un fotografo chiamato a dialogare
con le straordinarie collezioni storiche dell’Istituto, nato a Roma nel
1895 come Gabinetto Fotografico per documentare il patrimonio culturale
con fini di tutela e catalogazione (da cui il nome). Grazie a questa
attività e all’acquisizione di altri importanti archivi e collezioni, l’ICCD
vanta oggi una delle più consistenti raccolte di fotografia storica in
Italia.
Invitare Fontcuberta ha significato assumersi il rischio di mettere in
crisi le certezze acquisite. Tutto il suo lavoro ha a che fare con la
messa in discussione delle tante (false) convinzioni attorno alla
fotografia. Sul concetto di autorialità, sul suo essere un’attestazione
di verità, oppure sulla sua immortalità, che è proprio il tema di questo
lavoro.
La scelta di Fontcuberta di operare su oggetti deteriorati nasce dal
desiderio di verificare quanto incidano sullo status della fotografia il
venir meno della sua integrità materiale e la sua deperibilità. «Questo
lavoro analizza l’agonia della fotografia. Il suo deterioramento
materiale genera una fotografia paradossalmente “amnesica”, senza più
memoria. La presunta immortalità della fotografia pertanto si è rivelata
falsa», ci spiegava Fontcuberta mentre osservava affascinato alcuni
negativi agonizzanti del Fondo Chigi, conservato in ICCD.
Questi materiali amnesici, se da un lato perdono memoria, dall’altro
acquisiscono nuova fisionomia attraverso i tanti segni che il passare
del tempo vi ha lasciato: graffi, lacune e, soprattutto, batteri e
funghi proliferati grazie all’ambiente chimicamente accogliente
dell’emulsione di gelatina ai sali d’argento. Nuovi paesaggi che si
sommano al soggetto originario della fotografia, visibile in controluce.
Attraverso un’operazione di “semplice” selezione di un frammento della
lastra, Fontcuberta compie il suo atto creativo, restituendo immagini
quasi astratte eppure reali; paesaggi poco plausibili, eppure
assolutamente non manipolati, presentati attraverso il display delle
lightbox.
Commenta il critico David Campany nel libro che accompagna il lavoro:
«L’astrazione non è mai davvero astratta, specialmente quando ha a che
fare con la fotografia. È un invito a un ipotetico significato, ma è
anche una questione di distanza: avvicinatevi, e non troverete nulla di
astratto. Ciò che cresce su queste lastre di vetro è una forma organica,
complessa tanto quanto le montagne, i laghi, gli animali e le foreste
raffigurate nell’emulsione fotografica».
Come quasi sempre accade nella pratica artistica di Fontcuberta, il
lavoro utilizza un procedimento di tipo surrealista che consiste nel
prelievo/appropriazione di elementi già dati: «Non intervengo
sull’immagine, attuo una disciplina oggettivista, di tipo surrealista;
un incontro fortunato con l’oggetto».
In questo caso, oltre alle colonie batteriche, un altro “agente”
inconsapevole ha partecipato alla creazione dell’opera di Fontcuberta:
il principe Francesco Chigi Albani della Rovere (1881-1953), autore
delle fotografie originali.
Rampollo di una delle casate nobiliari più ricche e potenti della storia
che ha dato i natali a banchieri, mecenati, cardinali, santi e Papi, dal
punto di vista fotografico Francesco Chigi rientra appieno nella
categoria dei dilettanti, o amateurs, come all’epoca venivano definiti i
fortunati che potevano permettersi di fotografare per puro piacere e non
per necessità di guadagno. L’aspetto più interessante è però dato dalla
curiosità del Principe per la fotografia di per sé, come strumento di
visione del mondo. Il suo intento non fu mai quello di realizzare solo
belle immagini da guardare quanto piuttosto di guardare oggetti e
fenomeni attraverso la macchina fotografica. L’inclinazione alla
sperimentazione approda in certi casi a esiti molto divertenti, come
testimoniano alcune lastre presenti in archivio, che anticipano di
qualche lustro le acrobazie virtuali di Photoshop.
C’è in questa attitudine una giocosa libertà che ben dialoga con
l’intelligenza ludica e provocatoria, l’audacia linguistica e artistica
di Joan Fontcuberta.
E così, a distanza di oltre un secolo, grazie a questa “adozione”, ecco
che le fotografie di Chigi, proprio le più reiette e inservibili,
tornano a parlarci, resuscitando dalla polvere.
Cultura di polvere, appunto. Il titolo, che in un primo momento doveva
essere “Coltura di polvere”, si rifà alla celebre opera di Marcel
Duchamp e Man Ray del 1920 “Élevage de poussière”.
«Possiamo capire perché Fontcuberta ami questa storia di polvere e
possiamo vedere le analogie con il suo progetto», afferma Campany. «A
quanto pare, fotografare le opere del Principe non è ripugnante, per
lui, né offensivo per la sua dignità di artista. Anzi, Fontcuberta ha
costruito una carriera di grande successo immergendosi in molte pratiche
e materiali "poco dignitosi" della fotografia. Immagini vernacolari.
Falsi. Social media. Fontcuberta non è interessato tanto all’arte alta
quanto alla fotografia come insieme complesso di attività che plasmano e
mediano la cultura e ci forniscono gli strumenti per comprendere e
fraintendere il mondo. Non c’è molto spazio per la dignità, qui.
Fontcuberta è per certi versi una figura baudelairiana, con la sua
convinzione che una società si riveli non tanto per quel che reputa
elevato e nobile, ma per ciò che butta via, che considera "basso" ed
eliminabile, che consegna alla discarica».
Favorire il dialogo tra gli artisti e la fotografia storica rappresenta
dunque una delle più fruttuose modalità per risvegliare gli immensi
depositi di immagini contenute negli archivi. Consegnare a un artista
come Fontcuberta il ruolo dello spectator e, al contempo, quello di
operator (cioè sia di fruitore che di produttore di immagini), significa
ampliare le possibilità di lettura e aggiungere nuovi contenuti al
patrimonio sedimentato, ricollocandolo nella contemporaneità con nuovi
significati.
Il portato di queste re-significazioni investe diversi ambiti e genera
nuove consapevolezze (o forse procura nuove incertezze). Sia di tipo
teorico (sullo status della fotografia) che pratico, suggerendo cambi di
prospettiva anche in chi quotidianamente gestisce questi patrimoni. Per
esempio, fare pace con l’idea che le fotografie, anche se oggetto di
scrupolose pratiche conservative, non sono immortali o che, anche quando
ormai ridotte in polvere, possono essere messe in gioco su fronti di
sperimentazione artistica, linguistica, scientifica, culturale.
Francesca Fabiani, curatrice