Bambinaia per le famiglie benestanti di New York e
Chicago sino dai primi anni Cinquanta del secolo scorso, per oltre
cinque decadi ha fotografato la vita nelle strade delle città in cui
ha vissuto senza mai far conoscere il proprio lavoro. Mai una
mostra, neppure marginale, mai una pubblicazione.
Ciò che ha lasciato è un archivio sterminato, con più di 150.000
negativi, una miriade di pellicole non sviluppate, stampe, film in
super 8 o 16 millimetri, registrazioni, appunti e altri documenti di
vario genere che la tata “francese” (la madre era originaria delle
Alpi provenzali) accumulava nelle stanze in cui si trovava a vivere,
custodendo tutto con grande gelosia.
Confinato infine in un magazzino, il materiale è stato confiscato
nel 2007, per il mancato pagamento dell’affitto, e quindi scoperto
dal giovane John Maloof in una casa d’aste di Chicago.
La mostra al MAN di Nuoro, a cura di Anne Morin, realizzata
in collaborazione con diChroma Photography, sarà la prima di Vivian
Maier ospitata da un’Istituzione pubblica italiana.
Partendo dai materiali raccolti da John Maloof, il progetto
espositivo fornisce una visione d’insieme dell’attività di Vivian
Maier ponendo l’accento su elementi chiave della sua poetica, come
l’ossessione per la documentazione e l’accumulo, fondamentali per la
costruzione di un corretto profilo artistico, oltre che biografico.
Insieme a 120 fotografie tra le più importanti dell’archivio di
Maloof, catturate tra i primi anni Cinquanta e la fine dei Sessanta,
la mostra presenta anche una serie di dieci filmati in super 8 e una
selezione di immagini a colori realizzate a partire dalla metà degli
anni Sessanta. Privi di tessuto narrativo e senza movimenti di
camera, i filmati fanno chiarezza sul suo modo di approcciare il
soggetto, fornendo indizi utili per l’interpretazione del lavoro
fotografico.
Gli scatti degli anni Settanta raccontano invece il cambiamento di
visione, dettato dal passaggio dalla Rolleiflex alla Leica, che
obbligò Vivian Maier a trasferire la macchina dall’altezza del
ventre a quella dell’occhio, offrendole nuove possibilità di visione
e di racconto.
La mostra sarà inoltre arricchita da una serie di provini a
contatto, mai esposti in precedenza, utili per comprendere i
processi di visione e sviluppo della fotografa americana.
A conquistare il pubblico, prima ancora delle fotografie, è la
storia di “tata Vivian”, perfetta per un romanzo esistenziale o come
trama di una commedia agrodolce; talmente insolita, talmente
affascinante, da non sembrare vera.
Ma al di là del racconto, al di là delle note biografiche, dei
piccoli grandi segreti rivelati dalle persone che l’hanno
conosciuta, al di là del suo ritratto di donna eccentrica e
riservata, dura e curiosa come pochi altri, custode di un mistero
non ancora svelato, al di là di tutto c’è il grande lavoro
fotografico di Vivian Maier, su cui molto rimane ancora da dire.
Vivian Maier ha scattato perlopiù nel tempo libero e a giudicare dai
risultati si può credere che, in quel tempo, non abbia fatto altro.
I suoi soggetti prediletti sono stati le strade e le persone, più
raramente le architetture, gli oggetti e i paesaggi.
Fotografava ciò che improvvisamente le si presentava davanti, che
fosse strano, insolito, degno di nota, o la più comune delle azioni
quotidiane. Il suo mondo erano “gli altri”, gli sconosciuti, le
persone anonime delle città, con cui entrava in contatto per brevi
momenti, sempre mantenendo una certa distanza che le permetteva di
fare dei soggetti ritratti i protagonisti inconsapevoli di
piccole-grandi storie senza importanza.
Ogni tanto però, in alcune composizioni più ardite, Vivian Maier si
rendeva visibile, superava la soglia della scena per divenire lei
stessa parte del suo racconto. Il riflesso del volto su un vetro, la
proiezione dell’ombra sul terreno, la sua silhouette compaiono nel
perimetro di molte immagini, quasi sempre spezzate da ombre o
riflessi, con l’insistenza un po’ ossessiva di chi, insieme a
un’idea del mondo, è in cerca soprattutto di se stesso. In questa
indagine senza fine talvolta coinvolgeva anche i bambini che le
venivano affidati, costringendoli a seguirla in giro per la città,
in zone spesso degradate di New York o di Chicago. A uno sguardo
sensibile e benevolo per gli umili, gli emarginati, univa una vena
sarcastica, evidente in molti scatti rubati, che colpiva un po’
tutti, dai ricchi borghesi dei quartieri alti agli sbandati delle
periferie.
“Di Vivian Maier – afferma Lorenzo Giusti, Direttore del MAN
- si parla oggi come di una grande fotografa del Novecento, da
accostare ai maestri del reportage di strada, da Alfred
Eisenstaedt a Robert Frank, da Diane Arbus a
Lisette Model. Le grandi istituzioni museali fanno però fatica a
legittimare il suo lavoro, vuoi perché, in tutta una vita, non ebbe
una sola occasione per mostrarlo, vuoi per la diffusa – e legittima
- diffidenza verso l’attività degli “hobbisti”. Ma i musei, si sa,
arrivano sempre un po’ in ritardo. Delle opere di Vivian Maier
non colpisce soltanto la capacità di osservazione, l’occhio vigile e
attento a ogni sensibile variazione dell’insieme, l’abilità di
composizione e di inquadramento. Ciò che più impressiona è la
facilità nel passare da un registro all’altro, dalla cronaca, alla
tragedia, alla commedia dell’assurdo, sempre tendendo saldamente
fede al proprio sguardo. Una voce rimasta per molto tempo fuori dal
coro, ma senza dubbio ben accordata”.
Info:
MAN Museum via S. Satta 27- 08100 Nuoro
tel. +39 0784 25 21 10
opening hours: 10 AM - 1 PM | 3 PM -7 PM closed Monday
www.museoman.it
Ufficio Stampa: Studio ESSECI, Sergio Campagnolo
gestione2@studioesseci.net tel. 049663499
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