Il Ritratto dell’Artista di Gianfranco Brunelli


Recensione critica di Gianfranco Brunelli, direttore della mostra 'Il Ritratto dell’Artista - Nello specchio di Narciso. Il volto, la maschera, il selfie' sul tema dell'autoritratto, presso il Museo Civico San Domenico, in Forlì, fino al 29 giugno 2025 .

Il Ritratto dell’Artista di Gianfranco Brunelli

09 marzo 2025 - Testo critico

 
Molti sono i temi e gli artisti convocati in questa ventesima mostra al Museo Civico San Domenico. Un compendio potremmo definirla. Perché, per quanti siano, non possono essere tutti. Neppure, come sempre, tutti quelli che si volevano. Una mostra che gioca, attraverso l’autoritratto, il rapporto tra l’artista e la propria arte. Non mancano ritratti di altri personaggi effigiati dal singolo artista o di artisti che raffigurano altri artisti: a significare una trama di relazioni formali e concettuali tra visione pittorica e linguaggio verbale.
 

Questo sono io. Cosa ha significato per gli artisti in ogni epoca raffigurare il proprio volto? Niente come un’autorappresentazione ci permette di cogliere l’essenza di un artista nel suo tempo, il suo io narrante, l’immagine che ha di sé, del suo ruolo sociale, la sua visione del mondo, ma anche l’esplorazione intima e la proiezione di sé, di come egli vuole che gli altri lo vedano, che intendano la sua opera, il suo stile. Nell’autoritratto il pittore si sdoppia nel duplice ruolo di soggetto e oggetto, di modello e di artista. L’occhio si posa su di sé, l’immagine ritratta è un alter da sé ed è un sé. Segno, traccia, memoria, riflesso da tradurre in un’immagine definitiva, giocata nel tempo, contro il tempo, oltre il tempo.
Tutte queste motivazioni intrattengono spesso relazioni reciproche. Il ritratto dell’artista, come è stato più volte osservato, allegoria ed emblema, racconto e finzione, menzogna e verità. Dall’antichità al Novecento, l’autoritratto è “il sublime ricordo dell’antico mito di Narciso”, narrato da Ovidio nelle Metamorfosi.
 

Dagli esametri di Ovidio, dai mosaici di Antiochia, dalle pareti ocra di Pompei, attraverso l’ombra del Seicento e la luce dell’Ottocento, fino ai riflessi di Bill Viola, il rispecchiamento di Narciso è l’autorispecchiamento dell’artista.
La figura dell’uomo che si guarda, riassume con la potenza dell’immagine la domanda del conoscere e del senso. Non casualmente nel mito, Tiresia profetizza alla madre di Narciso, Liriope, che il figlio sarebbe rimasto in vita fino a quando non avesse realmente conosciuto se stesso.
In questo l’arte pone a emblema di se stessa lo specchio. Lo specchio (speculum) costituisce l’esperienza che sta alla base di ciò che chiamiamo immagine (da imago, un tempo maschera funeraria). E l’immagine è all’origine del linguaggio. Istituisce la relazione tra visibile e dicibile.
Da oggetto strumentale, privo di intenzionalità, che duplica l’immagine apparente, riflettendola, lo specchio diviene riflessione, pensiero ‘speculativo’, simbolo e metafora. Fino all’autoscatto fotografico, dovendo riprodurre la realtà proiettata su uno specchio, l’artista non ha altra possibilità di autorappresentarsi se non mentre si guarda, attraverso uno sdoppiamento. Anche i tempi storici si rispecchiano in altri tempi della storia per meglio interpretare se stessi.
 

Leon Battista Alberti, nel De pictura (1435), riprende come modello per gli artisti la figura di Narciso che si specchia nella fonte, teorizzando le arti visive come arti speculative, e affida all’autoritratto il tema della sua notorietà di artista, introducendo la figura dell’artista come uomo di lettere, protagonista del proprio tempo.
Il suo Narciso rappresenta sia l’apice della passione medievale per gli specchi sia l’avvio del ruolo dell’artista nella modernità. “Però usai di dire tra i miei amici […] quel Narciso convertito in fiore essere della pittura stato inventore”. E ancora: “Le cose prese dalla natura si emendino collo specchio”.
Tra la fine del Quattrocento e l’inizio del nuovo secolo, negli appunti di Leonardo, poi riorganizzati nel Trattato sulla pittura, torna il tema della pittura come specchio del corpo e dell’anima dell’artista. L’immagine dello specchio “è quella che più immediatamente lega il tema dell’autoritratto con quello più generale della natura della pittura”.




Apuleio, nella sua Apologia (158 d.c.) aveva già pronunciato la difesa dello specchio in rapporto al ritratto: “Se anche confessassi di essermi guardato allo specchio, che delitto sarebbe questo di conoscere la propria immagine e tenerla non riposta in un luogo, ma portarla dove si vuole in un piccolo specchio?”.
Un secolo dopo, Plotino, l’ultimo grande filosofo dell’antichità, formula la tesi, scritta in riferimento a Fidia, secondo la quale l’opera d’arte trascende la realtà e l’immagine (riflessa o meno che sia) dimora nell’anima dell’artista. L’artista, oltre a rispecchiarsi nella sua natura materiale, guarda dentro di sé e cerca la propria immagine che riflette la divinità. “Rientra in te stesso e guarda: se ancora non ti vedi bello di dentro, fa come lo scultore di una statua che deve venire bella, il quale a volte toglie e a volte leviga a volte liscia e a volte raffina, fin quando sulla statua non riaffiori un bel volto”.
Ma quando Plotino scrive è già avvenuto un altro decisivo spostamento semantico, il passaggio che dapprima i latini in senso giuridico (Cicerone) e poi i Padri della Chiesa (da Tertulliano a
Origene a Gregorio di Nazianzo) in senso teologico, hanno fatto del concetto di persona: da nome della maschera teatrale che indicava un personaggio, persona diventa la definizione di un ruolo individuale, di un volto individuale, di un individuo. Da maschera a essere umano, a sostanza dell’umano, l’uomo stesso e da uomo a Dio: il mistero trinitario di Dio sta nella relazione fra tre persone.
Le premesse per la nascita dell’autoritratto ci sono oramai tutte.
Se il volto è scrittura dell’anima, il ritratto ne è la parte visiva. E se l’anima è concepita come lo specchio di Dio (imago Dei), allora immagine esteriore e immagine interiore ne conservano il disegno. Il tema dello specchio e del volto specchiato divengono centrali a partire dal Medioevo (il vetro riflettente è del 1250), dapprima come strumento, poi come allegoria. Da Giotto in avanti, lungo l’intero Rinascimento, si genera così una lunga schiera di allegorie, spesso a soggetto femminile, specchiata virtù, vanita e bramosia: Vanitas e Prudentia, bellezza e morte, contemplazione e speculazione. Eppure, l’ossessione per la propria immagine (per il ritratto in genere) nasce moderna. Essa è legata al quadro e all’affermazione del ruolo dei protagonisti delle corti europee. A partire dall’età umanistica si afferma sempre più l’autoritratto come comunicazione del proprio talento e come rivendicazione e affermazione del ruolo sociale dell’artista nel suo tempo. Contiene in sé l’idea dell’oltrepassamento del tempo, uno strappo al sordo silenzio della morte. L’artista, consegnando la propria immagine oltre la propria morte, rende eterna la propria opera.
Dopo la teoresi di Leon Battista Alberti, Lorenzo Ghiberti si autoritrae nelle porte del Battistero di Firenze, Perugino tra i personaggi famosi dell’antichità nel Collegio del Cambio, Mantegna
nella basilica di Sant’Andrea. Una affermazione di sé (o del sé) che nella pittura fiamminga aveva avviato, in contemporanea all’Alberti, Jan van Eyck con il suo Uomo con turbante (1433). Egli dipinge l’atto di vedere.
La qualità interpretativa dell’artista.
 

Il Quattrocento ci offre una serie di autoritratti inseriti nelle scene collettive. Dapprima essi sono segnati dall’intimità dell’artista con il soggetto dipinto, come nel caso di Taddeo di Bartolo nell’Incoronazione della Vergine di Montepulciano; in seguito l’artista diviene presenza testimoniale del proprio protagonismo all’interno dell’opera, guardando verso lo spettatore, come nel caso di Benozzo Gozzoli nella Processione dei Magi, o di Sandro Botticelli nell’Adorazione dei Magi, o di Filippo Lippi nell’Incoronazione della Vergine, di Mantegna e Bellini nelle rispettive Presentazione al tempio, fino a Raffaello nella Scuola di Atene delle Stanze vaticane. In tali scene l’artista vi compare anche come “io narrante”, commentatore del significato morale della sua opera, come nel caso di Luca Signorelli nelle Storie dell’Anticristo di Orvieto; o testimone dei fatti della Istoria, come Dürer ne Il martirio dei diecimila. In questo percorso vi è lo sviluppo di una ricerca di identità da parte dell’artista che si fa interprete, tra forma e significato, dell’opera stessa.
La figura eroicizzata dell’artista appare in Giorgione che si mostra come Davide. Il giovane Giorgione supera la grandezza dell’antico, così come Davide aveva superato il valore di Saul. Fino ad arrivare agli autoritratti singoli, frontali o di tre quarti per acquisire profondità, con gli occhi specchiati, rivolti all’interlocutore: se la serie può essere aperta da Antonello da Messina, la sequenza vede protagonisti Lucas Cranach, Tintoretto, Bernini, Velázquez. Ma un punto d’eccezione lo aveva stabilito Dürer, non solo elaborando una forma ieratica e divinizzata di se stesso, ma codificando la traccia del proprio pensiero nella serie dei suoi disegni, fra tutti il ritratto di Melantone.
Nella Firenze di fine XV secolo, Raffaello traduce il concetto ficiniano della bellezza neoplatonica nella “diletta giovinezza” della sua immagine e Parmigianino porta al culmine quel percorso. Una significativa ripresa del genere si ha con le prime opere di Sofonisba Anguissola. Sia Parmigianino sia Sofonisba usano la figura dello specchio come strumento e come metafora. In entrambi, gli autoritratti testimoniano dell’abilità dell’artista. Con il pieno Cinquecento si afferma definitivamente, mentre si sviluppa il genere della biografia, l’autoritratto singolo, attestazione individuale dell’artista come figura professionale affermata, come personaggio. Nella diffusione dell’autoritratto, e del suo collezionismo, molto si deve a Vasari e alla creazione a Firenze (nel 1563) dell’Accademia del Disegno. In seguito, nella corte medicea, il cardinale Leopoldo (1617- 1675) costruirà quella formidabile gabbia dorata di autoritratti degli artisti del suo tempo, che si sporgerà sui secoli successivi. Mentre a Roma, l’Accademia intitolata a San Luca collezionerà i volti dei suoi membri, accrescendo la testimonianza di un genere che da minore diventerà strumento di comunicazione.
Ma nell’autoritratto irrompe anche un’assidua meditazione sull’esistenza dell’artista e sul significato dell’arte. L’intera produzione di Giorgione ne è un indice enigmatico. I primi autoritratti di Tiziano sono prodotti in età avanzata, e sono una meditazione
sulla vecchiaia, oltre che un’autocelebrazione della durata della
propria fama.
In questa chiave meditativa, autobiografica, l’artista ricorrerà anche all’autoritratto per comunicare la propria condizione spirituale e il proprio tormento: Cranach e Solario si dipingono nella testa mozzata del Battista; Michelangelo fissa il proprio ritratto dapprima nella pelle scuoiata di san Bartolomeo nel Giudizio sistino, in seguito nel volto di Nicodemo della Pietà Bandini. E dopo di lui molti, segnatamente Caravaggio e Artemisia Gentileschi, si racconteranno attraverso una identificazione totale tra la propria arte e la propria esistenza tragica. Analogo modello viene assunto da un più pacificato Allori con il suo autoritratto a occhi socchiusi,
identificato nella testa tagliata di Oloferne.
L’Autoritratto o Allegoria della Pittura di Artemisia Gentileschi di Barberini va persino oltre la vicenda biografica. Le sue Susanna o Giuditta – quasi testimoni della sua tragedia – rimangono per un istante sullo sfondo. L’autoritratto attesta uno stile meno intimistico: un’esaltazione della fatica fisica, una sensuale austerità. L’artista è all’opera, l’artista è l’opera.

Prende piede nel XVII secolo anche la riflessione sull’artista nel suo ambiente di lavoro, nel momento e nel luogo della sua creazione artistica. Lo stesso collezionismo, a partire dalla metà del XVI secolo, contribuirà fortemente a questo sviluppo. La lista di questo genere di rappresentazioni idealizzate (l’artista al cavalletto, l’atelier dell’artista, la visita di committenti nello studio dell’artista) è lunga, nella penisola e oltralpe.
E tuttavia il secolo lascia senza risposta la questione dello status dell’artista: intellettuale, ausiliare del potere, cortigiano, attore, buffone. Nel Cinquecento, Paolo Giovio aveva paragonato gli artisti agli attori. Veronese ai buffoni. Velázquez, un secolo dopo, pone l’artista al centro della historia, che nel suo tempo passa per le corti europee.
Accanto al tema del ritratto intimo, colloquiale, in genere con la sposa o la famiglia, talora con amici (genere frequentato anche da Rubens e da Frans Hals), il modello dell’intellettuale gentiluomo, del pictor doctus, è il genere che celebra un maestro riconosciuto, imitato e sfidato come Pieter Paul Rubens. All’antico maestro e rivale si rivolge infatti Antoon van Dyck con il suo Autoritratto con girasole del 1633. Quella pesante, ostentata catena d’oro che gli cinge le spalle, ne sottolinea l’affermazione artistica e l’agiatezza economica, mentre con la destra indica il girasole, simbolo di fedeltà al suo nuovo sovrano Carlo I.
E se Rubens si sofferma assai poco su di sé, Rembrandt continuerà tutta la vita, nelle sue tele come nei suoi disegni, dai quali sono state tratte magnifiche acqueforti, ad apportare inquieti ritocchi alla sua immagine, scandendo le fasi della propria esistenza con una enigmatica, per non dire ossessiva, produzione di auto-raffigurazioni. La lunga, programmatica serie dei suoi autoritratti non attestano più solo la fama del pittore, bensì contribuiscono a crearla. Il suo volto diviene famoso. Rembrandt rende l’autoritratto un genere autonomo, unico, di successo. E tuttavia egli rimane incredibilmente originale e mai ripetitivo. Le sue figure rimandano all’enigma. Per questo il critico Jean Paris, nel suo saggio Miroirs de Rembrandt, parla dei suoi autoritratti come di “maschere sovrapposte una sopra l’altra”. Persona nel XVII secolo significa nuovamente personaggio, dramatis persona.
Nel corso del secolo recitare con il proprio volto è questione che attiene non solo al teatro, ma viene affrontata anche dagli artisti. Autoritratti in forma di attori. L’artista indossa costumi esotici. La maschera è il ritratto vivente. Nella “società delle maschere” delle corti di allora, i volti venivano portati come se fossero maschere. Teatro e vita, nel periodo barocco, divengono l’uno lo specchio dell’altra. L’io è un ruolo sociale. E se è stata assunta come paradigmatica l’opera teatrale di Calderón de la Barca, El Gran Teatro del Mundo, per descrivere la dissimulazione, occorre andare a Shakespeare per intendere fino in fondo la vertigine
umana di quel palcoscenico. Una straordinaria concettualizzazione del sé, la complessa domanda del “chi sono io?”, ci viene illustrata, intorno al 1646, da un ventenne viennese assai poco noto, Johannes Gumpp. Il suo Autoritratto risponde alla triplice visione dell’artista. Di spalle, in piedi, mentre dipinge, l’artista ha il volto riflesso nello specchio e di nuovo il suo volto appare dipinto sulla tela. Vi è diversità tra i due tipi di somiglianza, quella dello specchio e quella del ritratto. Gumpp si sdoppia nello specchio, e il suo ritratto si rivolge a noi.

Gli artisti del XVIII secolo, pur seguendo un lento processo di cambiamento, si ritrovano improvvisamente nel crocevia della storia. La loro è una immagine indecisa. Inseriti nel contesto di diverse linee di sviluppo del pensiero, investiti da passioni opposte, si ritrovano al bivio tra idealità e storia, ragione e sentimento, tra la ricerca del bello ideale e l’irrompere del sublime. Nella nostalgia per l’antico, non si esprime solo un rimpianto per l’irraggiungibile (per Herder “nella storia dell’umanità, la Grecia resterà sempre il luogo dove essa ha vissuto la sua più bella giovinezza”), ma l’insegnamento per le belle forme e la natura reale. In Fidia vive, per
Canova, la “bella natura”. Emulo di Fidia e di Prassitele, Canova è “sintesi e apogeo della scultura europea post-classica” (Giordani).
L’autoritratto nella forma della scultura ricalca non solo il passato, bensì prelude all’autocelebrazione dell’artista come storia. Thorvaldsen è più misurato di Canova, ma il tracciato è quello. L’idea del Pantheon dell’artista, di un memoriale, di un mausoleo, di un museo o di un monumento dedicato agli artisti famosi e agli antichi maestri, se è immaginata da Canova per se stesso, diventerà presto, anche per scopi politici, parte della mitografia delle nazioni. Si celebra la gloria riconosciuta del genio superiore come grandezza e continuità con il passato, si celebrano le glorie del passato come fondamento e affermazione del presente di una nazione.
Da Damer a Mengs a Winckelmann, gli artisti filosofi giungeranno a una determinazione del proprio ruolo rispetto al passato sotto forma di un vero e proprio magistero, mentre, complice la Rivoluzione francese, il mondo si è fatto nuovo: l’artista è andato alla ricerca di una forma perfetta, per poi scoprire al proprio fianco l’irrompere della realtà della storia e il sentimento della natura.
Di quel dissidio profondo saranno testimoni e protagonisti artisti come Zoffany. In fondo quando Edmond Burke pubblicava la sua Inchiesta sul bello e il sublime, nel 1757, aveva già tracciato le linee di svolgimento del secolo. E l’esito divaricante tra forma e contenuto è ben rispecchiato dalla dura reazione di Füssli a Winckelmann. Se per Winckelmann la bellezza prescinde dall’espressione, per Füssli “soltanto l’espressione può conferire alla bellezza il supremo e definitivo potere sull’occhio”.
Anche nelle lettere, e non solo nell’arte, si fa largo l’uso dell’autoritratto. Il volto raccontato non è solo quello dei personaggi descritti (si pensi al tratteggio che Manzoni fa del volto della Monaca di Monza nei Promessi sposi: “Il suo aspetto, che poteva di mostrar venticinque anni, faceva a prima vista un’impressione di bellezza, ma d’una bellezza sbattuta, sfiorita e, direi quasi, scomposta”), bensì anche quello dell’autore stesso. Casi emblematici sono quello di Vittorio Alfieri del 1786 (“Sublime specchio di veraci detti, / mostrami in corpo e in animo qual sono”) e quello di Ugo Foscolo del 1803 (“di vizi ricco e di virtù, do lode / alla ragion, ma corro ove al cor piace: / morte sol mi darà fama e riposo”). Scrittura dell’animo, più che somiglianza fisica. Cui cercherà di corrispondere il duplice ritratto che François-Xavier Fabre eseguirà per l’Alfieri nel 1793, e per Foscolo vent’anni dopo.

Con la modernità, l’autoritratto si carica di una valenza romantica, luogo di elaborazione del mito dell’artista (eroe e profeta dell’arte), della sua solitudine. In un’Europa ancora immersa nella luminosità chiara del Neoclassicismo militante di Jacques-Louis David, si fa largo la nera visionarietà di Francisco Goya.
La generazione di mezzo ai due secoli, tra la fine del Settecento e i primi trent’anni dell’Ottocento, si mostra attraverso l’autoritratto, in una sequenza di volti da fermo immagine. Antoine-Jean
Gros, Anne-Louis Girodet, gli italiani Bossi, Minardi, Bezzuoli, Molteni identificano la solitudine esistenziale dell’artista con la forza del destino. Sospinti dal turbinio degli eventi storici e delle emozioni, così come attesta quella incredibile galleria di autoritratti, gli artisti si porranno romanticamente sulle tracce dell’‘io’. Il volto dipinto diventa l’identità visiva, fino all’arrivo della fotografia che se ne impossesserà.
Delacroix e Hayez hanno ripreso e seguito l’idea di autoritrarsi a mano a mano che cambiava il loro modo di pensare e di interpretare la pittura, in un tragitto in cui arte e storia, vicenda esistenziale e forma estetica si incontrano e s’accompagnano. Si tratta di percorsi che ben interpretano l’idea romantica offerta da Hegel nell’Estetica (1835), per il quale sia la pittura sia la musica ben possono esprimere “lo spirito particolare dei popoli, delle epoche, degli individui”, ma anche la vita soggettiva dell’anima: “Dolore, tormento del corpo e dello spirito, morte e resurrezione, la personalità soggettiva spirituale, l’intimità, l’amore, il cuore e l’anima”.
Se, come ha scritto Malraux, la storia moderna è lotta per la libertà e quella dell’artista è lotta per la propria affermazione, allora c’è unità tra l’uomo e l’artista. Gli esiti pacificati e borghesi di Ingres e di Fattori, che chiude il secolo, contrastano con l’irrompere della follia in Mancini.
Con l’irruzione del soggettivismo, l’esito simbolista dell’autoritratto segna, complice la fotografia, la contestazione dei riti collettivi e la costruzione di una mitologia personale. Su questa traccia si muovono Moreau e Böcklin, Lovis Corinth, La relazione tra l’uomo e l’artista si rovescerà sul primato dell’artista. L’eccezionalità della sua figura viene trasmessa dalla generazione romantica, attraverso l’Impressionismo alla generazione successiva, tanto da giungere tramite gli espressionisti tedeschi e i futuristi italiani (Balla tra tutti) nel cuore del Novecento.

Nel Novecento più che il singolo autoritratto diviene importante la somma di tutte le immagini con cui l’artista cerca di farsi conoscere e di conoscersi, il che produce un attento, continuo, persino ossessivo studio di sé. L’io diviso, fatto a pezzi, dell’artista è lo specchio della società europea, che sembra, con la Prima guerra mondiale, essersi trasformata in un profondo incubo, una tetra carnevalata. Ne è emblema nel Novecento italiano la lettura poetica di Sciltian e in chiave europea, tra gli altri, Christian Schad.
Il ritorno dello specchio come figura del doppio, come ritorno al mito di Pigmalione con la modella (Carena, Ferrazzi, Tozzi) e come soglia verso l’indecifrabile ripropone il tema della maschera.
La maschera torna a manifestare le sue origini lontane nel ritratto moderno dell’artista. Era già apparsa come sberleffo e autoironia a fine Ottocento, e ritornerà in numerosi autoritratti nel Novecento, spesso nascosti in nature morte (in Severini), o come affermazione esplicita di sé, oppure esibita anche sotto la cifra del travestimento (Rosai, Mafai, de Chirico).
Lo specchio mostra un nuovo Narciso nel Novecento. Ma in questo nuovo rispecchiamento (accade, ad esempio, in Corrado Cagli), Narciso risulta, volta a volta, smarrito, sconosciuto a se stesso. Lo specchio mostra facce sconosciute, metamorfosi inattese, una pluralità di figure alla ricerca dei segni di una enigmatica mutazione. Nel mito dell’enigma, nella figura di Edipo, l’uomo è il nome dell’enigma, nominando se stesso, Edipo scioglie positivamente l’enigma e sconfigge il mostro alato, la Sfinge. Il Novecento scopre nell’orrore della propria storia che l’uomo è l’enigma ed è il mostro. I corpi non mostrano solo la lotta dell’arte, il corpo a corpo, il dominio tra i sessi, preludono già alla distruzione fisica, all’annullamento dell’umano che si produrrà tragicamente a partire dagli anni trenta in Europa.
La poetica di de Chirico (compresa tra Nietzsche e Pirandello) e in generale la sua cospicua produzione di autoritratti (in mostra il capolavoro della Galleria d’Arte Moderna di Roma), che lo accompagna nell’intero arco della sua produzione artistica, comporta un’amara quanto mitologica dichiarazione di ‘sfratto’ dell’umano. Tutto è ‘cosa’, ‘caso’ e ‘caos’. De Chirico interroga, attraverso quella innumerevole produzione di autoimmagini, la natura dell’uomo. E lo vede nudo. Umano, troppo umano.
E anche il Ritorno all’Ordine dei primi novecentisti (Sironi, Funi, Marussig, Oppi), con quella bipartizione tra il ‘chiaro’ e lo ‘scuro’, in una luce senza calore, con la sua solenne sospensione neoquattrocentesca della figura e del gesto si mette alla ricerca di un ricongiungimento di quella dispersa armonia tra l’uomo e la realtà. Quella ricerca assumerà spesso i caratteri di una fuga dalla realtà, di una separazione, di un ripiegamento nell’‘io’. Ma non lontane, per non dire simbiotiche, sono le esperienze classificate sotto la denominazione di Realismo magico (secondo il conio di Franz Roh) o di quella Nuova Oggettività che sente il vitalismo
come antropomorfo. Fino al realismo post bellico, dove l’ironia diviene l’unico anestetico alla febbre dell’artista, alla malattia del tempo. Artisti quali Chuck Close, Bill Viola, Pistoletto, Ceroli, Marina Abramović chiudono il nostro compendio, indicando strade diverse, approcci formali e materici diversi. Tutti compresi nella ricerca delle possibili espressioni umane?

Il Ritratto dell’Artista - Nello specchio di Narciso. Il volto, la maschera, il selfie

Un saggio in immagini dall’Antico al Novecento.

Un compendio di storia dell’arte attorno al ruolo dell’autoritratto nella poetica degli artisti

23 febbraio – 29 giugno 2025

Museo Civico San Domenico, Forlì

www.mostremuseisandomenico.it

Tags: autoritratto Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì Museo Civico San Domenico