Recensione critica di Gianfranco Brunelli, direttore della mostra 'Il Ritratto dell’Artista - Nello specchio di Narciso. Il volto, la maschera, il selfie' sul tema dell'autoritratto, presso il Museo Civico San Domenico, in Forlì, fino al 29 giugno 2025 .
Molti sono i temi e gli
artisti convocati in questa ventesima mostra al
Museo Civico San Domenico. Un compendio potremmo
definirla. Perché, per quanti siano, non possono
essere tutti. Neppure, come sempre, tutti quelli che
si volevano. Una mostra che gioca, attraverso
l’autoritratto, il rapporto tra l’artista e la
propria arte. Non mancano ritratti di altri
personaggi effigiati dal singolo artista o di
artisti che raffigurano altri artisti: a significare
una trama di relazioni formali e concettuali tra
visione pittorica e linguaggio verbale.
Questo
sono io. Cosa ha significato per gli artisti in ogni
epoca raffigurare il proprio volto? Niente come un’autorappresentazione
ci permette di cogliere l’essenza di un artista nel
suo tempo, il suo io narrante, l’immagine che ha di
sé, del suo ruolo sociale, la sua visione del mondo,
ma anche l’esplorazione intima e la proiezione di
sé, di come egli vuole che gli altri lo vedano, che
intendano la sua opera, il suo stile.
Nell’autoritratto il pittore si sdoppia nel duplice
ruolo di soggetto e oggetto, di modello e di
artista. L’occhio si posa su di sé, l’immagine
ritratta è un alter da sé ed è un sé. Segno,
traccia, memoria, riflesso da tradurre in
un’immagine definitiva, giocata nel tempo, contro il
tempo, oltre il tempo.
Tutte queste motivazioni intrattengono spesso
relazioni reciproche. Il ritratto dell’artista, come
è stato più volte osservato, allegoria ed emblema,
racconto e finzione, menzogna e verità.
Dall’antichità al Novecento, l’autoritratto è “il
sublime ricordo dell’antico mito di Narciso”,
narrato da Ovidio nelle Metamorfosi.
Dagli esametri di
Ovidio, dai mosaici di Antiochia, dalle pareti ocra
di Pompei, attraverso l’ombra del Seicento e la luce
dell’Ottocento, fino ai riflessi di Bill Viola, il
rispecchiamento di Narciso è l’autorispecchiamento
dell’artista.
La figura
dell’uomo che si guarda, riassume con la potenza
dell’immagine la domanda del conoscere e del senso.
Non casualmente nel mito, Tiresia profetizza alla
madre di Narciso, Liriope, che il figlio sarebbe
rimasto in vita fino a quando non avesse realmente
conosciuto se stesso.
In questo l’arte pone a emblema di se stessa lo
specchio. Lo specchio (speculum) costituisce
l’esperienza che sta alla base di ciò che chiamiamo
immagine (da imago, un tempo maschera funeraria). E
l’immagine è all’origine del linguaggio. Istituisce
la relazione tra visibile e dicibile.
Da oggetto strumentale, privo di intenzionalità, che
duplica l’immagine apparente, riflettendola, lo
specchio diviene riflessione, pensiero
‘speculativo’, simbolo e metafora. Fino
all’autoscatto fotografico, dovendo riprodurre la
realtà proiettata su uno specchio, l’artista non ha
altra possibilità di autorappresentarsi se non
mentre si guarda, attraverso uno sdoppiamento. Anche
i tempi storici si rispecchiano in altri tempi della
storia per meglio interpretare se stessi.
Leon Battista Alberti, nel De
pictura (1435), riprende come modello per gli
artisti la figura di Narciso che si specchia nella
fonte, teorizzando le arti visive come arti
speculative, e affida all’autoritratto il tema della
sua notorietà di artista, introducendo la figura
dell’artista come uomo di lettere, protagonista del
proprio tempo. Apuleio, nella sua
Apologia (158 d.c.) aveva già pronunciato la difesa dello specchio in
rapporto al ritratto: “Se anche confessassi di essermi guardato allo
specchio, che delitto sarebbe questo di conoscere la propria immagine e
tenerla non riposta in un luogo, ma portarla dove si vuole in un piccolo
specchio?”. Il Quattrocento ci offre una serie di
autoritratti inseriti nelle scene collettive. Dapprima essi sono segnati
dall’intimità dell’artista con il soggetto dipinto, come nel caso di Taddeo di
Bartolo nell’Incoronazione della Vergine di Montepulciano; in seguito l’artista
diviene presenza testimoniale del proprio protagonismo all’interno dell’opera,
guardando verso lo spettatore, come nel caso di Benozzo Gozzoli nella
Processione dei Magi, o di Sandro Botticelli nell’Adorazione dei Magi, o di
Filippo Lippi nell’Incoronazione della Vergine, di Mantegna e Bellini nelle
rispettive Presentazione al tempio, fino a Raffaello nella Scuola di Atene delle
Stanze vaticane. In tali scene l’artista vi compare anche come “io narrante”,
commentatore del significato morale della sua opera, come nel caso di Luca
Signorelli nelle Storie dell’Anticristo di Orvieto; o testimone dei fatti della
Istoria, come Dürer ne Il martirio dei diecimila. In questo percorso vi è lo
sviluppo di una ricerca di identità da parte dell’artista che si fa interprete,
tra forma e significato, dell’opera stessa. Prende piede nel XVII secolo anche la riflessione
sull’artista nel suo ambiente di lavoro, nel momento e nel luogo della sua
creazione artistica. Lo stesso collezionismo, a partire dalla metà del XVI
secolo, contribuirà fortemente a questo sviluppo. La lista di questo genere di
rappresentazioni idealizzate (l’artista al cavalletto, l’atelier dell’artista,
la visita di committenti nello studio dell’artista) è lunga, nella penisola e
oltralpe. Gli artisti del XVIII secolo, pur seguendo un
lento processo di cambiamento, si ritrovano improvvisamente nel crocevia della
storia. La loro è una immagine indecisa. Inseriti nel contesto di diverse linee
di sviluppo del pensiero, investiti da passioni opposte, si ritrovano al bivio
tra idealità e storia, ragione e sentimento, tra la ricerca del bello ideale e
l’irrompere del sublime. Nella nostalgia per l’antico, non si esprime solo un
rimpianto per l’irraggiungibile (per Herder “nella storia dell’umanità, la
Grecia resterà sempre il luogo dove essa ha vissuto la sua più bella
giovinezza”), ma l’insegnamento per le belle forme e la natura reale. In Fidia
vive, per Con la modernità, l’autoritratto si carica di una
valenza romantica, luogo di elaborazione del mito dell’artista (eroe e profeta
dell’arte), della sua solitudine. In un’Europa ancora immersa nella luminosità
chiara del Neoclassicismo militante di Jacques-Louis David, si fa largo la nera
visionarietà di Francisco Goya. Nel Novecento più che il singolo autoritratto
diviene importante la somma di tutte le immagini con cui l’artista cerca di
farsi conoscere e di conoscersi, il che produce un attento, continuo, persino
ossessivo studio di sé. L’io diviso, fatto a pezzi, dell’artista è lo specchio
della società europea, che sembra, con la Prima guerra mondiale, essersi
trasformata in un profondo incubo, una tetra carnevalata. Ne è emblema nel
Novecento italiano la lettura poetica di Sciltian e in chiave europea, tra gli
altri, Christian Schad.
Il suo Narciso rappresenta sia l’apice della
passione medievale per gli specchi sia l’avvio del
ruolo dell’artista nella modernità. “Però usai di
dire tra i miei amici […] quel Narciso convertito in
fiore essere della pittura stato inventore”. E
ancora: “Le cose prese dalla natura si emendino
collo specchio”.
Tra la fine del Quattrocento e l’inizio del nuovo
secolo, negli appunti di Leonardo, poi riorganizzati
nel Trattato sulla pittura, torna il tema della
pittura come specchio del corpo e dell’anima
dell’artista. L’immagine dello specchio “è quella
che più immediatamente lega il tema
dell’autoritratto con quello più generale della
natura della pittura”.
Un secolo dopo, Plotino, l’ultimo grande filosofo dell’antichità,
formula la tesi, scritta in riferimento a Fidia, secondo la quale
l’opera d’arte trascende la realtà e l’immagine (riflessa o meno che
sia) dimora nell’anima dell’artista. L’artista, oltre a rispecchiarsi
nella sua natura materiale, guarda dentro di sé e cerca la propria
immagine che riflette la divinità. “Rientra in te stesso e guarda: se
ancora non ti vedi bello di dentro, fa come lo scultore di una statua
che deve venire bella, il quale a volte toglie e a volte leviga a volte
liscia e a volte raffina, fin quando sulla statua non riaffiori un bel
volto”.
Ma quando Plotino scrive è già avvenuto un altro decisivo spostamento
semantico, il passaggio che dapprima i latini in senso giuridico
(Cicerone) e poi i Padri della Chiesa (da Tertulliano a
Origene a Gregorio di Nazianzo) in senso teologico, hanno fatto del
concetto di persona: da nome della maschera teatrale che indicava un
personaggio, persona diventa la definizione di un ruolo individuale, di
un volto individuale, di un individuo. Da maschera a essere umano, a
sostanza dell’umano, l’uomo stesso e da uomo a Dio: il mistero
trinitario di Dio sta nella relazione fra tre persone.
Le premesse per la nascita dell’autoritratto ci sono oramai tutte.
Se il volto è scrittura dell’anima, il ritratto ne è la parte visiva. E
se l’anima è concepita come lo specchio di Dio (imago Dei), allora
immagine esteriore e immagine interiore ne conservano il disegno. Il
tema dello specchio e del volto specchiato divengono centrali a partire
dal Medioevo (il vetro riflettente è del 1250), dapprima come strumento,
poi come allegoria. Da Giotto in avanti, lungo l’intero Rinascimento, si
genera così una lunga schiera di allegorie, spesso a soggetto femminile,
specchiata virtù, vanita e bramosia: Vanitas e Prudentia, bellezza e
morte, contemplazione e speculazione. Eppure, l’ossessione per la
propria immagine (per il ritratto in genere) nasce moderna. Essa è
legata al quadro e all’affermazione del ruolo dei protagonisti delle
corti europee. A partire dall’età umanistica si afferma sempre più
l’autoritratto come comunicazione del proprio talento e come
rivendicazione e affermazione del ruolo sociale dell’artista nel suo
tempo. Contiene in sé l’idea dell’oltrepassamento del tempo, uno strappo
al sordo silenzio della morte. L’artista, consegnando la propria
immagine oltre la propria morte, rende eterna la propria opera.
Dopo la teoresi di Leon Battista Alberti, Lorenzo Ghiberti si autoritrae
nelle porte del Battistero di Firenze, Perugino tra i personaggi famosi
dell’antichità nel Collegio del Cambio, Mantegna
nella basilica di Sant’Andrea. Una affermazione di sé (o del sé) che
nella pittura fiamminga aveva avviato, in contemporanea all’Alberti, Jan
van Eyck con il suo Uomo con turbante (1433). Egli dipinge l’atto di
vedere.
La qualità interpretativa dell’artista.
La figura eroicizzata dell’artista appare in Giorgione che si mostra come
Davide. Il giovane Giorgione supera la grandezza dell’antico, così come Davide
aveva superato il valore di Saul. Fino ad arrivare agli autoritratti singoli,
frontali o di tre quarti per acquisire profondità, con gli occhi specchiati,
rivolti all’interlocutore: se la serie può essere aperta da Antonello da
Messina, la sequenza vede protagonisti Lucas Cranach, Tintoretto, Bernini,
Velázquez. Ma un punto d’eccezione lo aveva stabilito Dürer, non solo elaborando
una forma ieratica e divinizzata di se stesso, ma codificando la traccia del
proprio pensiero nella serie dei suoi disegni, fra tutti il ritratto di
Melantone.
Nella Firenze di fine XV secolo, Raffaello traduce il concetto ficiniano della
bellezza neoplatonica nella “diletta giovinezza” della sua immagine e
Parmigianino porta al culmine quel percorso. Una significativa ripresa del
genere si ha con le prime opere di Sofonisba Anguissola. Sia Parmigianino sia
Sofonisba usano la figura dello specchio come strumento e come metafora. In
entrambi, gli autoritratti testimoniano dell’abilità dell’artista. Con il pieno
Cinquecento si afferma definitivamente, mentre si sviluppa il genere della
biografia, l’autoritratto singolo, attestazione individuale dell’artista come
figura professionale affermata, come personaggio. Nella diffusione
dell’autoritratto, e del suo collezionismo, molto si deve a Vasari e alla
creazione a Firenze (nel 1563) dell’Accademia del Disegno. In seguito, nella
corte medicea, il cardinale Leopoldo (1617- 1675) costruirà quella formidabile
gabbia dorata di autoritratti degli artisti del suo tempo, che si sporgerà sui
secoli successivi. Mentre a Roma, l’Accademia intitolata a San Luca collezionerà
i volti dei suoi membri, accrescendo la testimonianza di un genere che da minore
diventerà strumento di comunicazione.
Ma nell’autoritratto irrompe anche un’assidua meditazione sull’esistenza
dell’artista e sul significato dell’arte. L’intera produzione di Giorgione ne è
un indice enigmatico. I primi autoritratti di Tiziano sono prodotti in età
avanzata, e sono una meditazione
sulla vecchiaia, oltre che un’autocelebrazione della durata della
propria fama.
In questa chiave meditativa, autobiografica, l’artista ricorrerà anche
all’autoritratto per comunicare la propria condizione spirituale e il proprio
tormento: Cranach e Solario si dipingono nella testa mozzata del Battista;
Michelangelo fissa il proprio ritratto dapprima nella pelle scuoiata di san
Bartolomeo nel Giudizio sistino, in seguito nel volto di Nicodemo della Pietà
Bandini. E dopo di lui molti, segnatamente Caravaggio e Artemisia Gentileschi,
si racconteranno attraverso una identificazione totale tra la propria arte e la
propria esistenza tragica. Analogo modello viene assunto da un più pacificato
Allori con il suo autoritratto a occhi socchiusi,
identificato nella testa tagliata di Oloferne.
L’Autoritratto o Allegoria della Pittura di Artemisia Gentileschi di Barberini
va persino oltre la vicenda biografica. Le sue Susanna o Giuditta – quasi
testimoni della sua tragedia – rimangono per un istante sullo sfondo.
L’autoritratto attesta uno stile meno intimistico: un’esaltazione della fatica
fisica, una sensuale austerità. L’artista è all’opera, l’artista è l’opera.
E tuttavia il secolo lascia senza risposta la questione dello status
dell’artista: intellettuale, ausiliare del potere, cortigiano, attore, buffone.
Nel Cinquecento, Paolo Giovio aveva paragonato gli artisti agli attori. Veronese
ai buffoni. Velázquez, un secolo dopo, pone l’artista al centro della historia,
che nel suo tempo passa per le corti europee.
Accanto al tema del ritratto intimo, colloquiale, in genere con la sposa o la
famiglia, talora con amici (genere frequentato anche da Rubens e da Frans Hals),
il modello dell’intellettuale gentiluomo, del pictor doctus, è il genere che
celebra un maestro riconosciuto, imitato e sfidato come Pieter Paul Rubens.
All’antico maestro e rivale si rivolge infatti Antoon van Dyck con il suo
Autoritratto con girasole del 1633. Quella pesante, ostentata catena d’oro che
gli cinge le spalle, ne sottolinea l’affermazione artistica e l’agiatezza
economica, mentre con la destra indica il girasole, simbolo di fedeltà al suo
nuovo sovrano Carlo I.
E se Rubens si sofferma assai poco su di sé, Rembrandt continuerà tutta la vita,
nelle sue tele come nei suoi disegni, dai quali sono state tratte magnifiche
acqueforti, ad apportare inquieti ritocchi alla sua immagine, scandendo le fasi
della propria esistenza con una enigmatica, per non dire ossessiva, produzione
di auto-raffigurazioni. La lunga, programmatica serie dei suoi autoritratti non
attestano più solo la fama del pittore, bensì contribuiscono a crearla. Il suo
volto diviene famoso. Rembrandt rende l’autoritratto un genere autonomo, unico,
di successo. E tuttavia egli rimane incredibilmente originale e mai ripetitivo.
Le sue figure rimandano all’enigma. Per questo il critico Jean Paris, nel suo
saggio Miroirs de Rembrandt, parla dei suoi autoritratti come di “maschere
sovrapposte una sopra l’altra”. Persona nel XVII secolo significa nuovamente
personaggio, dramatis persona.
Nel corso del secolo recitare con il proprio volto è questione che attiene non
solo al teatro, ma viene affrontata anche dagli artisti. Autoritratti in forma
di attori. L’artista indossa costumi esotici. La maschera è il ritratto vivente.
Nella “società delle maschere” delle corti di allora, i volti venivano portati
come se fossero maschere. Teatro e vita, nel periodo barocco, divengono l’uno lo
specchio dell’altra. L’io è un ruolo sociale. E se è stata assunta come
paradigmatica l’opera teatrale di Calderón de la Barca, El Gran Teatro del Mundo,
per descrivere la dissimulazione, occorre andare a Shakespeare per intendere
fino in fondo la vertigine
umana di quel palcoscenico. Una straordinaria concettualizzazione del sé, la
complessa domanda del “chi sono io?”, ci viene illustrata, intorno al 1646, da
un ventenne viennese assai poco noto, Johannes Gumpp. Il suo Autoritratto
risponde alla triplice visione dell’artista. Di spalle, in piedi, mentre
dipinge, l’artista ha il volto riflesso nello specchio e di nuovo il suo volto
appare dipinto sulla tela. Vi è diversità tra i due tipi di somiglianza, quella
dello specchio e quella del ritratto. Gumpp si sdoppia nello specchio, e il suo
ritratto si rivolge a noi.
Canova, la “bella natura”. Emulo di Fidia e di Prassitele, Canova è “sintesi e
apogeo della scultura europea post-classica” (Giordani).
L’autoritratto nella forma della scultura ricalca non solo il passato, bensì
prelude all’autocelebrazione dell’artista come storia. Thorvaldsen è più
misurato di Canova, ma il tracciato è quello. L’idea del Pantheon dell’artista,
di un memoriale, di un mausoleo, di un museo o di un monumento dedicato agli
artisti famosi e agli antichi maestri, se è immaginata da Canova per se stesso,
diventerà presto, anche per scopi politici, parte della mitografia delle
nazioni. Si celebra la gloria riconosciuta del genio superiore come grandezza e
continuità con il passato, si celebrano le glorie del passato come fondamento e
affermazione del presente di una nazione.
Da Damer a Mengs a Winckelmann, gli artisti filosofi giungeranno a una
determinazione del proprio ruolo rispetto al passato sotto forma di un vero e
proprio magistero, mentre, complice la Rivoluzione francese, il mondo si è fatto
nuovo: l’artista è andato alla ricerca di una forma perfetta, per poi scoprire
al proprio fianco l’irrompere della realtà della storia e il sentimento della
natura.
Di quel dissidio profondo saranno testimoni e protagonisti artisti come Zoffany.
In fondo quando Edmond Burke pubblicava la sua Inchiesta sul bello e il sublime,
nel 1757, aveva già tracciato le linee di svolgimento del secolo. E l’esito
divaricante tra forma e contenuto è ben rispecchiato dalla dura reazione di
Füssli a Winckelmann. Se per Winckelmann la bellezza prescinde dall’espressione,
per Füssli “soltanto l’espressione può conferire alla bellezza il supremo e
definitivo potere sull’occhio”.
Anche nelle lettere, e non solo nell’arte, si fa largo l’uso dell’autoritratto.
Il volto raccontato non è solo quello dei personaggi descritti (si pensi al
tratteggio che Manzoni fa del volto della Monaca di Monza nei Promessi sposi:
“Il suo aspetto, che poteva di mostrar venticinque anni, faceva a prima vista
un’impressione di bellezza, ma d’una bellezza sbattuta, sfiorita e, direi quasi,
scomposta”), bensì anche quello dell’autore stesso. Casi emblematici sono quello
di Vittorio Alfieri del 1786 (“Sublime specchio di veraci detti, / mostrami in
corpo e in animo qual sono”) e quello di Ugo Foscolo del 1803 (“di vizi ricco e
di virtù, do lode / alla ragion, ma corro ove al cor piace: / morte sol mi darà
fama e riposo”). Scrittura dell’animo, più che somiglianza fisica. Cui cercherà
di corrispondere il duplice ritratto che François-Xavier Fabre eseguirà per
l’Alfieri nel 1793, e per Foscolo vent’anni dopo.
La generazione di mezzo ai due secoli, tra la fine del Settecento e i primi
trent’anni dell’Ottocento, si mostra attraverso l’autoritratto, in una sequenza
di volti da fermo immagine. Antoine-Jean
Gros, Anne-Louis Girodet, gli italiani Bossi, Minardi, Bezzuoli, Molteni
identificano la solitudine esistenziale dell’artista con la forza del destino.
Sospinti dal turbinio degli eventi storici e delle emozioni, così come attesta
quella incredibile galleria di autoritratti, gli artisti si porranno
romanticamente sulle tracce dell’‘io’. Il volto dipinto diventa l’identità
visiva, fino all’arrivo della fotografia che se ne impossesserà.
Delacroix e Hayez hanno ripreso e seguito l’idea di autoritrarsi a mano a mano
che cambiava il loro modo di pensare e di interpretare la pittura, in un
tragitto in cui arte e storia, vicenda esistenziale e forma estetica si
incontrano e s’accompagnano. Si tratta di percorsi che ben interpretano l’idea
romantica offerta da Hegel nell’Estetica (1835), per il quale sia la pittura sia
la musica ben possono esprimere “lo spirito particolare dei popoli, delle
epoche, degli individui”, ma anche la vita soggettiva dell’anima: “Dolore,
tormento del corpo e dello spirito, morte e resurrezione, la personalità
soggettiva spirituale, l’intimità, l’amore, il cuore e l’anima”.
Se, come ha scritto Malraux, la storia moderna è lotta per la libertà e quella
dell’artista è lotta per la propria affermazione, allora c’è unità tra l’uomo e
l’artista. Gli esiti pacificati e borghesi di Ingres e di Fattori, che chiude il
secolo, contrastano con l’irrompere della follia in Mancini.
Con l’irruzione del soggettivismo, l’esito simbolista dell’autoritratto segna,
complice la fotografia, la contestazione dei riti collettivi e la costruzione di
una mitologia personale. Su questa traccia si muovono Moreau e Böcklin, Lovis
Corinth, La relazione tra l’uomo e l’artista si rovescerà sul primato
dell’artista. L’eccezionalità della sua figura viene trasmessa dalla generazione
romantica, attraverso l’Impressionismo alla generazione successiva, tanto da
giungere tramite gli espressionisti tedeschi e i futuristi italiani (Balla tra
tutti) nel cuore del Novecento.
Il ritorno dello specchio come figura del doppio, come ritorno al mito di
Pigmalione con la modella (Carena, Ferrazzi, Tozzi) e come soglia verso
l’indecifrabile ripropone il tema della maschera.
La maschera torna a manifestare le sue origini lontane nel ritratto moderno
dell’artista. Era già apparsa come sberleffo e autoironia a fine Ottocento, e
ritornerà in numerosi autoritratti nel Novecento, spesso nascosti in nature
morte (in Severini), o come affermazione esplicita di sé, oppure esibita anche
sotto la cifra del travestimento (Rosai, Mafai, de Chirico).
Lo specchio mostra un nuovo Narciso nel Novecento. Ma in questo nuovo
rispecchiamento (accade, ad esempio, in Corrado Cagli), Narciso risulta, volta a
volta, smarrito, sconosciuto a se stesso. Lo specchio mostra facce sconosciute,
metamorfosi inattese, una pluralità di figure alla ricerca dei segni di una
enigmatica mutazione. Nel mito dell’enigma, nella figura di Edipo, l’uomo è il
nome dell’enigma, nominando se stesso, Edipo scioglie positivamente l’enigma e
sconfigge il mostro alato, la Sfinge. Il Novecento scopre nell’orrore della
propria storia che l’uomo è l’enigma ed è il mostro. I corpi non mostrano solo
la lotta dell’arte, il corpo a
corpo, il dominio tra i sessi, preludono già alla distruzione fisica,
all’annullamento dell’umano che si produrrà tragicamente a partire dagli anni
trenta in Europa.
La poetica di de Chirico (compresa tra Nietzsche e Pirandello) e in generale la
sua cospicua produzione di autoritratti (in mostra il capolavoro della Galleria
d’Arte Moderna di Roma), che lo accompagna nell’intero arco della sua produzione
artistica, comporta un’amara quanto mitologica dichiarazione di ‘sfratto’
dell’umano. Tutto è ‘cosa’, ‘caso’ e ‘caos’. De Chirico interroga, attraverso
quella innumerevole produzione di autoimmagini, la natura dell’uomo. E lo vede
nudo. Umano, troppo umano.
E anche il Ritorno all’Ordine dei primi novecentisti (Sironi, Funi, Marussig,
Oppi), con quella bipartizione tra il ‘chiaro’ e lo ‘scuro’, in una luce senza
calore, con la sua solenne sospensione neoquattrocentesca della figura e del
gesto si mette alla ricerca di un ricongiungimento di quella dispersa armonia
tra l’uomo e la realtà. Quella ricerca assumerà spesso i caratteri di una fuga
dalla realtà, di una separazione, di un ripiegamento nell’‘io’. Ma non lontane,
per non dire simbiotiche, sono le esperienze classificate sotto la denominazione
di Realismo magico (secondo il conio di Franz Roh) o di quella Nuova Oggettività
che sente il vitalismo
come antropomorfo. Fino al realismo post bellico, dove l’ironia diviene l’unico
anestetico alla febbre dell’artista, alla malattia del tempo. Artisti quali
Chuck Close, Bill Viola, Pistoletto, Ceroli, Marina Abramović chiudono il nostro
compendio, indicando strade diverse, approcci formali e materici diversi. Tutti
compresi nella ricerca delle possibili espressioni umane?
Il Ritratto dell’Artista - Nello specchio di Narciso. Il volto, la maschera, il selfie
Un saggio in immagini dall’Antico al Novecento.
Un compendio di storia dell’arte attorno al ruolo dell’autoritratto nella poetica degli artisti
23 febbraio – 29 giugno 2025
Museo Civico San Domenico, Forlì
www.mostremuseisandomenico.it