"Roberta Coni raccoglie nel suo lavoro molte urgenze simultaneamente, raccontandosi nel profondo, mettendo a nudo le sue debolezze e le sue ossessioni, dichiarandosi allo specchio senza alcun filtro, alcuna protezione, senza mai rinunciare alla propria femminilità. Il suo lavoro accumula intensità ad ogni passaggio sulla tela, partendo da una minuziosa ricerca sulla luce che rivela i particolari progressivamente, svelandoli uno dopo l’altro, con pazienza, con spaesante intensità nel dosare luci ed ombre, rilievi e profondità. L’immagine appare come un’autentica folgorazione, si arricchisce ulteriormente del non detto e del non visto, quasi fosse una visione improvvisa e ultraterrena che si materializza dopo un’intensa riflessione. Un’immagine che viene da lontano, da un altrove frutto del pensiero. E’ una insistita, pervicace ricerca di effetti fin dalla prima pennellata, fin dalla scelta delle proporzioni dei pieni e dei vuoti, dove i pieni predominano quasi ad occupare la scena, quasi a togliere il respiro della riflessione alla forma. Quella di Roberta Coni è una ricerca instancabile, senza pause. Il tempo che ci rende la sua pittura è un tempo immobile, sospeso, dove la direzione degli sguardi attraversa la scena fissandosi negli occhi dell’osservatore, che viene risucchiato all’interno della scena dipinta in tutte le sue sfumature, in tutta la sua forza evocatrice. La pittura della Coni non si autocelebra nella sua qualità, non resta autoreferenziale ma chiede coinvolgimento e partecipazione.
L’arte contemporanea degli ultimi quarant’anni sembra voler colmare un’assenza colpevole di riconoscimenti nei confronti dell’arte sviluppata dalle donne, a dimostrazione che, fino ad allora, si era trattato in gran parte di un pregiudizio, un errore della storia. Sono molte le protagoniste internazionali dell’arte di questi anni, a partire dagli anni ottanta: tutte le personalità di queste artiste raccontano uno spaccato femminile ben definito. Le veterane Louise Bourgeois, con le sue sculture materne e mortifere, e Yayoi Kusama pietrificata nelle ossessioni del suo mondo parallelo, Marina Abramovic e il rapporto col corpo, Cindy Sherman, Rosemarie Trockel, Barbara Kruger, Shirin Neshat e l’emancipazione da donna musulmana, Sue Williams, Kiki Smith, Tracey Emin, Sarah Lucas, Mona Hatoum, Rachel Whiteread, Jenny Saville e moltissime altre, fino ad giungere nel nuovo millennio, dove le donne affermate in arte si sono letteralmente moltiplicate, aggiungendo alla lista anche qualche italiana come Vanessa Beecroft, Monica Bonvicini e Paola Pivi.
Non dovendo inutilmente sostenere l’esistenza di un’arte “per generi”, è tuttavia indubitabile che la sensibilità femminile inneschi alcune problematiche specifiche interne al vissuto delle protagoniste. Emergono in questo senso una serie di tematiche sulla discriminazione, sulla violenza (spesso subìta), sull’impossibilità espressiva, sull’inaccettabilità di una vita imposta secondo schemi precostituiti che nulla hanno a che fare con le aspirazioni della donna inserita in un contesto sociale paritario ed evoluto. In questo senso le donne amano parlare delle donne, amano parlare di sé e, ad ultima istanza, dei loro problemi. Non si tratta più, come negli anni ’70, di mettere al guinzaglio un esemplare maschio e portarlo a spasso per la città come la femminista Dacia Valent, né di rivendicare la propria sofferenza svenandosi come Gina Pane: oggi la parola d’ordine sembra essere parlare di sé senza preclusioni e impedimenti.
In questa direzione in Italia si assiste oggi all’affermazione di un nutrito gruppo di giovani donne, assolutamente determinate a raccontarsi. E’ importante che questo avvenga su piani diversi, sviluppato da sensibilità e tecniche differenti, è importante che questo non sia un vezzo di una o due artiste, ma che rappresenti un’urgenza comune declinata attraverso individualità completamente differenti. Si passa così dal racconto per immagini di Barbara Nahmad, Valentina D’Amaro e Debora Hirsch, al risvolto psicanalitico di Margherita Manzelli ed Elisa Rossi, alla suggestione introspettiva di Vania Comoretti e Antonella Cinelli.
Roberta Coni dichiara la sua distanza dalla pittura d’intrattenimento, del disimpegno, dell’ilare atteggiamento di passaggio, mettendo a nudo se stessa in una dimensione psicologica di rara intensità emotiva, dove l’immagine spesso sembra trasudare un’inquietudine attiva e lacerante, pronta ad interrogare sulle ragioni della vita e della morte, del tempo e delle stagioni, della femminilità che attrae e punisce. Quelle di Roberta Coni sono considerazioni esistenziali tradotte in pittura, vere e proprie dichiarazioni di poetica, dove l’intensità diviene il comun denominatore di lunghi monologhi recitati a lume di candela, tolti da un’oscurità punitiva e nient’affatto rassicurante. E’ un senso d’inquietudine diffuso che domina in gran parte delle opere di Coni, dove le dichiarazioni del corpo divengono racconto e la qualità asfissiante e minacciosa della superficie dipinta sembra lo specchio definitivo della verità. L’ultima possibilità. .
L’approdo naturale di una ricerca così profonda e sistematica non poteva che essere il concepimento di un progetto ad ampio respiro che coinvolgesse la donna e l’artista in un percorso d’arte e di vita. Roberta Coni, dopo aver indagato per anni su di sé e il suo mondo, approda con convinzione all’idea che la pittura possa traghettarla, opera dopo opera, attraverso le difficoltà della vita, passo dopo passo, scelta dopo scelta. Ha quindi deciso definitivamente di mettere la pittura al centro del suo mondo e se stessa al centro della pittura. Quel che ne scaturisce è probabilmente la summa di questa serie di considerazioni: accompagnare la storia a svolgersi attraverso la propria vita. Dante e la Commedia sono l’approdo, la scelta, la catarsi artistica.
La scelta della rappresentazione del Canto Primo dell’ Inferno è per l’artista è una sorta di ritorno a casa: stesse atmosfere inquiete e tenebrose, stesse luci soffuse, stessa tensione emotiva ed esistenziale. L’artista lo dichiara come “un viaggio di speranza e riaffermazione dell’umano e del divino”, vuole intenderlo come un viaggio già percorso da Dante alla sua età (nel mezzo del cammin di nostra vita), da ripercorrere attualizzandone le problematiche, i rischi, le speranze. Un progetto straordinariamente ambizioso in un periodo storico che pare teorizzare una precarietà assoluta, la paura, l’incerto. Le domande invece ancora riguardano il bene e il male, il giusto e l’ ingiusto, la salvezza e la dannazione. Quella che interessa l’artista è “l’alta speranza”, il messaggio salvifico insito nel racconto della pittura e nella sua possibilità evocatrice, all’interno di una presa di coscienza della reale portata della pittura, in grado di accompagnare e redimere.
Le urla, gli stridii, gli arti contratti, le proporzioni enfiate come in scolpiti ruderi trecenteschi, le smorfie, i ghigni, le costole, il sangue, il sangue, il sangue: in queste visioni dell’inferno ci sono quasi soltanto donne: peccatrici e salvatrici, forse. Gorghi tondi di forme attorte e costrette, ritagliate spesso in forme tonde da anamorfosi allucinate, senz’aria e senza speranza. Le fiere compongono un olio stupefacente: dove passato e presente accozzano, dove gli sguardi chiedono grazia spingendo il pedale del male e del fuoco, del sangue…. Poi compare un ciondolo, un monile da tre soldi che sembra voler alludere al finale, al bianco incedere di Beatrice, alla conclusione di tutto, non solo di questo ciclo (è un crocefisso?)." - Beatrice Buscaroli |