Critica in semiotica estetica all’Opera artistica di Hans Eigenheer
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Le caleidoscopiche vedute
grafico-pittoriche dell’artista svizzero offrono stagliate geometrie
dalle intensità incisorie, in qualità di occasioni di supporto
elargenti le visioni metamorfiche del molteplice sensibile del mondo
e, operando un’infaticabile ricerca della massima economia segnica,
conducono da una prospettiva esteriore dell’apparenza (Aussicht),
attraverso un approfondimento archeologico, ad un’inerenza interiore
di senso (Hinblick). Si abduce che il carattere visivo di quello che si possa definire il luogo fra rappresentazione (Vorstellung) e presentazione (Darstellung) dell’arte eigenheeriana s’inscriva nell’archetipo del mito orfico dello specchio di Dioniso, che inscena l’irrapresentabilità della visione originaria e il primo istante di nascita del logos: Dioniso fanciullo, l’iniziato, si specchia e scorge i feroci titani alle sue spalle, pur vedendo effettivamente se stesso, e al vissuto alienante il dio, sconcertato dall’abbaglio della visione universale impossibile, infrange lo specchio in caduta; i titani, approfittando del sorpreso sgomento sollevato, sbranano Dioniso, il fanciullo divino, che, privato del compimento del rituale d’iniziazione, mai farà ingresso al principio di realtà proprio dell’uomo adulto e resterà eterno fanciullo vivente la totalità fremente degli aspetti della vita di chi, come Eigenheer, non s’identifica nelle aspettative ordinarie. Zeus, punitore del gesto efferato, fulmina e incenerisce i titani e dalle ceneri nasce l’uomo, che dunque serba una inconscia costitutiva compresenza di titanica animalità e di divina essenza, poli opposti e dimenticati di cui l’arte di Eigenheer trova sempre una sintesi. Proprio e costitutivo dell’uomo, nato dalle ceneri dei titani fagocitanti il dio è così uno specchio in frantumi, ma ogni frammento, in qualità di segno, conserva la rappresentazione della visione originaria, per rimando all’oggetto, pur da un unico punto di vista. Das Fragment, il frammento, è una domanda aperta, eine Frage, senza una risposta ultima e definitiva. Eigenheer viaggia, osserva, vive e colleziona i frammenti segnici dei molteplici e specchianti punti di vista culturali delle civiltà del mondo per riattivare il movimento della visione, che distrugge le stampelle dell’abito (habit peirceano): destabilizza la parvenza del segno che assegna il significato stabilito e usuale, come quello dilagante della certezza della quantificazione e della commercializzazione e invita, oltre le vesti pregiudiziali dell’abitudine, ad essere e a vedere, per cercare instancabilmente il collante di senso nel vissuto precategoriale del mondo della vita (Lebenswelt husserliano). Eigenheer, in questo umano labirinto di cieche prospettive, che muove i passi da stralci giornalistici e pubblicitari, cerca un’arte come ‘arto del vivere’, che muova e congiunga, che ricomponga la visione parziale dell’uomo condannato ai frammenti dello specchio infranto, che riconduca alle memorie di un inconscio collettivo dell’umano e al desiderio impossibile della visione originaria nella sintesi di soggetto e di oggetto, di sé e di altro da sé, nell’avviluppo delle spazialità che rampollano architetture e geografie anatomiche: è l’eccedenza di un sé che rinuncia ad essere solamente se stesso, che abita il mondo ed ogni cosa del mondo. Non a caso Eigenheer si traduce in italiano come “cavaliere eccentrico”, che esce dai confini angusti della norma del centro identitario. L’immaginazione dell’artista viaggia, oltre la soglia della nascita dell’uomo, oltre il nome che segna il destino di finitudine nella dipartizione fra sé e mondo, fino ai luoghi immemoriali della ‘divina animalitas’, sintesi mitologica del dio Dioniso e della ferocia dei titani. L’arte di Eigenheer è azione intelligente (da inter-legĕre), che ‘legge tra le righe’, che trasceglie e scopre dello spazio il senso: per salti abduttivi il legame fra le cose. L’artista tende e traccia i fili grafici come filo d’Arianna che guida e rinasce sempre nuova identità ed espressione. L’artista non cerca la cosa, ma l’evento, il continuum dell’azione nella relazione dei passaggi delle forme, donando agli occhi le impronte sagomate sul filo del transito: poiché il sostanziale permanente, il senso, è il transitare in movimento di segni che sempre di nuovo svaniscono all’immemoriale mistero. Le creazioni dedaliche di Eigenheer sono invito all’ingresso nel labirinto dell’essere, alla perdita del principio individuationis per la partecipazione alla totalità fremente della vita: si capovolge la coscienza linguistica alfabetica nel segno semitico dell’aleph teriomorfo (lettera “A” rovesciata in testa di toro), nel richiamo selvaggio ad un vissuto anonimo plurale al mondo. Il segno è nostalgia (Sehnsucht) che segue ineluttabilmente la memoria inconscia dell’appartenenza al grembo della donna e della terra, al contenimento primario universale che sposa gli opposti di nascita e di morte ed è la matrice di senso universale per una rifondazione inarrestabile della conoscenza di sé e delle cose. È ricerca di un inedito, sorpreso, fugace mezzogiorno che ricuce la scissione (Spaltung) di luce e di ombra, di coscienza e d’inconscio nel simbolo, che rifigura e apre nuova itinerante ipotesi rituale dell’oltre di sé. L’urgenza epifanica del mitologema del fanciullo divino, del puer aeternus, è immanenza vitalistica al mondo e volontà essente nel libero divenire di tutte le forme, mai chiuse. Questo simbolismo mitologico non spiega, non ‘toglie le pieghe’ dell’esistere polisemico, ma lungo un iter labirintico relazionale e metamorfico, che archetipicamente e anatomicamente fonde cervello e intestino, facendo saggiamente del sapore il principio del sapere, crea immagini senza fine dello stesso abbraccio grembale fecondo dell’arte e gestante di sé, lasciandosi conoscere da ciò che non si conosce mai.
Il mondo per Eigenheer è madre:
unità onnicomprensiva che l’artista cerca sempre e infinitamente
nell’incorporazione della molteplicità. E la molteplicità in colonna
è espressione di una esogamia totemica, di una rinuncia e di una
espiazione della primordiale colpa edipica, in una ierogamia di
opposti, nella sizigia di cielo e di terra, che trasla il grembo
materno al grembo della totalità della vita. Il chasma si sublima
nel senso e nella conoscenza, oro alchemico, nella ricerca delle
origini comuni che legano i rapporti identitari di ogni uomo.
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