È il 29 marzo, nel pieno di questa reclusione forzata, e il
Quotidiano Online «da Bitonto», sua città adottiva (era nato a Palo
del Colle il 30 novembre 1933), annuncia la morte, la sera prima,
dell’Amico pittore Matteo Masiello, pubblicando l’immagine di una
sua splendida «Deposizione», che ricorda tanto, nelle
espressioni dolenti e grinzose, i volti dei pittori fiamminghi del
’300/’400/’500.
E la mente va..., cercando il suo sguardo altero, giammai
sorridente, severo e fulminante; non so se scontento (sofferente) e
malinconico (tranne in presenza della sua Magda), serrando fra le
labbra quel perenne mezzo toscano, o lontano nei pensieri più
reconditi..., inseguendo forse qualche suo personaggio, tratto dal
suo taccuino di «viaggi», apparso fluttuante e paludato, ironico, in
una maschera ambiguamente festosa, a volte grottesca, di quel certo
espressionismo tedesco, ch’ebbe in Grosz, forse, il massimo
esponente. In verità, Matteo l’ho conosciuto, umanamente, anni dopo.
Giacché, la prima volta, attraverso le sue opere.
Intorno alla metà degli anni ’70 del secolo scorso, quando
interrompendo il mio girovagare, scendendo a Bari, mi aggiravo fra
le gallerie, invitato a spedire le mie corrispondenze sulle mostre
(affinché la Puglia avesse una risonanza nazionale!), al Miliardo,
Settimanale per l’Italia, di Attualità Artistiche, Letterarie,
Politiche e Scientifiche e all’amico direttore del Periodico
ArteRama, Mario Portalupi, nonché critico d’arte,
caporedattore della pagina culturale del quotidiano (del tardo
pomeriggio) La Notte, di Milano.
Quella prima mostra, la ricordo, fu una «personale» (lui ci teneva a
dire, di un «autodidatta», laureato in Economia, dirigente
ministeriale) presso la Galleria Le Muse di Vito Daniele. Un
impatto giocoso di una lunga interminabile favola, come
s’addentrasse curioso sotto il tendone circolare del mondo circense,
affollato di clown, suonatori di trombe e clarini, saltimbanchi e
funamboli, un pò naif. In una cromìa accesa e prevalente di rossi e
aranci, mentre poi vi era un distacco, tematicamente brusco, quando
s’inoltrava nell’impegno civile, i moti sindacali e l’occupazione
delle fabbriche, lo sciopero, i cortei, le bandiere..., illividendo
persino la tavolozza, sotto cieli plumbei e sguardi truci, in una
pennellata pastosa e densa, mai più esercitata.
Una parentesi di vita, di una ricerca tecnica e tematica che lo
soddisfacesse....; perché poi, negli anni, prevalse quel suo modo
personalissimo d’impostare cattivanti scenografiche allegorie
labirintiche: visioni da sognatore, a inseguire il simbolismo
narrativo dei classici di tutti i tempi e la mitologia onirica. In
una rivisitazione moderna tra fiabe orientali e storie sacrali,
avvenimenti occasionali e personaggi, del passato e dell’attualità,
trasfigurati, in una folla straripante, «Omaggi» a Grosz, Kafka,
Borges, Bradley, Sciascia..., nudi o abbigliati e fasciati da pepli
e costumi damascati e di velluto, turbanti e cloche, mantiglie,
sciarpe e merletti, quanto abiti borghesi.
In percorsi complessi e trasgressivi, dissacranti e affascinanti,
nel mistero di una interpretazione, che ti costringeva a indagare la
«chiave» della rappresentazione, individuandola magari in un
particolare, in un gesto, seppur statico, o in una espressione
visuale: allusiva e sorniona, attonita e sfuggente, pensosa e ilare,
enigmatica e spudorata, intrigante e beffarda; giocando con i
colori, le luci, le ombre. In un disegno lineare e piatto, senza
volumi, appunto, come le tavole dei trecenteschi, dei gotici...,
desiderando distinguersi fuori tempo, per offrire l’immagine di una
pittura postmoderna, colta, dei citazionisti e del nuovo manierismo;
che avesse un suo spessore filosofico, tutt’altro che banale come
potesse apparire in molte delle sue visioni di baldorie, ma profondo
e penetrabile, da rigenerarlo con tanta passionalità. Che lo
portarono ad esporre, apprezzato, in diverse Istituzioni Pubbliche
tra la Russia e la Romania, la Svizzera, la Spagna, la Grecia, il
Portogallo, la Cina e Israele.
Quella stessa vocazione che dedicò a organizzare nel lontano 2009
(con gli auspici di due illuminati Sindaci, Nicola Pice e
Raffaele Valla), la
Civica Galleria d’Arte Contemporanea, allocata nel bel
Torrione Angioino di Bitonto. Coinvolgendo una trentina di artisti
pugliesi, in una cospicua donazione «modale», assieme a una
«raccolta» di sue opere.... Ma questa, dopo meno di un lustro, si
tramutò in una triste storia: di delusioni e miserie delle nostre
Istituzioni pubbliche, con un epilogo inimmaginabile, ch’ebbe ad
amareggiarlo non poco (e io assieme a Lui), ritirando le sue e mie
opere; sottraendole a un bailamme di inadeguatezze e inadempienze,
rivolte a privilegiare (quando si aprivano i battenti) una pseudo
«cultura», di un populismo becero d’intrattenimenti giovanili e
chiassosi a sovrapporsi alle opere, ben lungi dall’essere un Museo
di tradizione1. Tant’è, una quarantina di sue tele hanno arricchito
le Collezioni di Palazzo Beltrani in quel di Trani, dove
rimarranno a testimoniare il passaggio di un poeta sognatore, un
Amico sincero, che ci mancherà!
Perché in fondo, come diceva Charles Bukowski, «la
differenza fra l’arte e la vita, è che l’arte è più sopportabile»,
e la vita, ahinoi!, è quella che ci riserva, in questa parte del
microcosmo «meridionale» italo-europeo di talune realtà (!), quel
grado di civiltà dell’ignoranza istituzionale, che, come Tu stesso,
Matteo, ne convenivi, ci annega, nel mare personalistico della
tracotanza!
Fa specie constatarlo, soprattutto, sapendo Bitonto dai trascorsi
culturali straordinari, con personalità che l’hanno resa grande e
rinomata; per limitarci, dall’’800 in qua, esemplari: l’arch.
Luigi Castellucci «(1798-1877, mio trisavolo), rappresentativo
dell’architettura neoclassica in Puglia, con una selva di esimi
allievi, irriguardosamente disconosciuto dal Sito Comunale, di
essere stato l’Autore del Teatro Traetta, originariamente
Ferdinandeo!» e, per le Arti Figurative, gli esponenti del Novecento
Gaetano Spinelli e
Francesco Speranza.
Manlio Chieppa
Pentagrammi
Rivista di cultura, musica, arte, ambiente, società
diretta da Adriana De Serio
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