"[...] Non occorre dirti che c'è anche una
Puglia non letteraria,
non retorica, del tutto ignorata, desolata, tetra, respingente,
disperata, da tutti per calcolo e per viltà trascurata, quella della
Murgia di nord-ovest e dei suoi anche più rozzi contadini.
Bisogna che tu impari ad amarla, anche perchè non sanno e non
possono amarla gli altri. Se scendi da Bari per la Bari-Taranto,
prendendo la Gioia-Rocchetta, puoi percorrere tutta questa
zona dalla Sella di Gioia, dove si innesta alla Murgia di
Alberobello, per tutto il suo centinaio di chilometri di lunghezza,
sino alla Sella di Minervino. Per tutta la sua larghezza di una
cinquantina di chilometri si innalza a terrazze sempre più elevate
sino ad un massimo di 686 metri, con isoipse parallele al mare,
talchè chi ascende questa gradinata per la Bari-Taranto o la
Bari-Altamura, può, nei vari punti in cui raggiunge la linea di
displuvio, godere il doppio spettacolo dei due versanti, di quello
verso l'Adriatico, intensamente alberato di ulivi e mandorli, con in
fondo le forti tinte azzurrine e viola del mare e qua e là gli
innumerevoli borghi distesi come strisce bianche, e poi quello della
brulla solitudine murgiana, dove, a grandi distanze, sono qua e là
sulla dorsale, Santeramo, Altamura, Gravina, Poggiorsini,
Spinazzola, Minervino. Ma è impossibile abbracciarla tutta con
uno sguardo, sino all'incisione a sud-ovest del Bradano, del
Basentello e del Roviniero, sino a cioè alla vista del paesaggio
basilicatese, ben altrimenti mosso e vivo; perchè è impossibile,
tranne per le due ferrovie suddette, attraversarlo altrove nella sua
lunghezza, non avendo tra Gravina e Minervino altro taglio se non
due provinciali agli estremi da queste città al mare.
Il paesaggio, nella sua desolata sconfinatezza, nella sua assenza di
linee forti, suggestiona ed invita l'occhio a frugare con uno
struggimento di morte. Nessuna traccia di alberi, tranne intorno ai
paesi per due o tre chilometri; sotto l'oceano di luce uguale,
perspicua, sotto le grandi nuvole accavallate, anche l'altopiano
nudo, è un succedersi di ondate di grigio e ferrugino lievemente
mosse, all'infinito, con solo lo stacco dei terreni più scuri arati
e dei verdoni matti dei prati. Dove finisce tutto ciò? All'orizzonte
c'è qualche lieve linea di cinereo,appena ondulata, una pennellata
di cilestre più carico, come un semplice tratto su di una carta, il
velario di un ombra lontanissima, talchè noi pugliesi non abbiamo
affatto idea di montagna... e che ci sarà mai laggiù? Nasce laggiù
la vita? Ma dall'orizzonte, invano spiato, ci richiamano qualche
lembo di strada e le innumerevoli indicazioni dei solchi,dei muretti
di pietra a divisione dei poderi, che s'innalzano, si arrampicano,
discendono su per le Murge, dovunque s'intersecano e si arruffano
come una cappellatura. Che cosa mai questo paesaggio voglia dire, se
non suggestione di solitarietà, di distretta, di tristezza, di
dolore che non mendica né aspetta pietà, non saprei, tanto ogni vita
è assente di qui: ha osato fissarvisi quasi suggestionato il povero
Francesco Romano, un pittore moncherino di Gioia, nato di
calzolaio e morto povero e tisico recentemente.
A primavera i terreni meno magri diventano enormi riquadri di verdi,
fra cui arte qualche fiammata della senape in fiore, e il piano si
raccende tutto del giallo dei narcisi, del rosso dei papaveri
selvatici, del bianco di ombrelline. Ma il resto dovunque non muta,
o se i prati si tingono di rosa per la fioritura dell'"auzzo",
l'antico funebre asfodelo, il quadro viene stretto in giro dal
calcare cinerino,fungaia che dovunque punteggia le alture, o lebbra
che invade e domina uniforme, nella quale, contro qualche
tondeggiamento più spiccato, si indovina qua e là qualcosa più
informe e orrido, la stagliatura slabbrata di qualche 'lama', di
qualche aspra gravina, qualche abrasione di sanguigno. Allena,
d'estate, tra il giallo pulverulento delle biade, una accurata
sinfonia di verdi a valle: un filare di mais tenero, qualche
quercia, un pino nerissimo in mezzo, un campo di patate in secondo
piano, e di così poco si fanno i paradisi dei nostri sogni! Le case
basse di campagna, così rare, dove nulla spicca nella confusione
degl'innumerevoli cortili, hanno la mala grazia di chi sempre ha
sofferto e disdegna di piacere; appena qualche inestetico comignolo,
qualche piccionaia sporgente. Nessun segno di vita all'intorno, mai:
la terra riassorbe i contadini che innumerevoli, mattina e sera,
percorrono coi loro muli, coi loro traini le strade di campagna;
poche pecore del color del calcare o appena più sudicio, qualche
magra vacca o giumenta. Il silenzio è rotto da due gazze appaiate
nel volo leggero, da qualche stormodi cornacchie, da un enorme falco
su in alto, dai gorgheggi virtuosi delle innumerevoli calandre.
Qualche volta mi viene in mente il Catullo-calvos pascoliano:
Sui campi brulli pesano le nubi,/ sopra le nubi volano i rapaci,/
ma sempre van le allodole garrendo,/ su questi e quelle.
Ma gli uccelli, si sa, si contentano di poco e non negano la loro
grazia a nessuno. Si capisce come al centro di questa asprezza
ripugnante Federico II abbia voluto la casa dell'incanto,
Casteldelmonte, e come di lì movesse spesso alle sue cacce sin
oltre Gravina, ché troppe tristezze aveva l'uomo. Ma, dopo, non par
nata se non per cavalcata di briganti. Tutta questa zona, se pur non
ha più i boschi del passato, dei quali è traccia solo nella
toponomastica locale, appunto per la sua enorme quantità di petrame,
è sana, tranne nel Gravinese, infestato di malaria; ma se Gravina
muore ogni giorno più di malaria , gli altri paesi son tutti vittime
da secoli della desolazione della Murgia, contro cui gli uomini sono
soli a lottare in mezzo a mille difficoltà. [...]" - Testo di
Tommaso Fiore
Fotografie di
Leonardo Basile. Altre foto - dello stesso autore - negli
album pubblicati su Facebook
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Ultimo
aggiornamento:
13-10-22
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